Augusto Illuminati
Un adolescente fa
tumultuosa esperienza di molte cose che definiscono la sua personalità. Il
versante emotivo e sociale è forse più determinante di quella strettamente intellettuale.
Impara il sesso, l’amore, lo spirito tribale, saggia i limiti del suo corpo e
dell’alterità, si costruisce un’identità apparentemente stabile, frequenta
psichicamente i territori del disordine e della morte, si imbatte in Dio e nel
Diavolo. Nella sua vita quotidiana dominano musica, discoteca e spettacolo,
impera il cellulare e magari Internet. E’ di regola assente la politica, che in
altri anni era il capitolo centrale del romanzo di formazione. Tuttavia può
ancora comparirvi la lettura. Cosa può cercare e trovare un adolescente nella
pagina scritta? Saggezza, verità, o forse lo attira la stessa curiosità che lo
può spingere verso le droghe, un mettersi alla prova, la sfida ai dati forniti
dall’educazione familiare e scolastica. E’ complicato insegnare a leggere. In
genere lo si fa contro gli insegnamenti ricevuti. Questa è la fragile forza
della cultura, il suo elemento perturbante. O lo si afferra subito o la
produttività del leggere scompare rapidamente e si sprofonda in una specie di
analfabetismo di ritorno. Non si possono seguire se non “cattivi” maestri, a
partire da Socrate, il corruttore dei giovani ateniesi. Chi non fa letture
proibite a quindici anni non imparerà mai più nulla in materia. Non si può
guidare qualcuno verso qualcosa, tanto meno verso la verità. Lo si può
accompagnare favorendo il desiderio di sapere –e naturalmente fornendo libri,
riviste, biblioteche, bibliografie. Aiutando a prendere la parola e a stendere
una tesina. Ci sono insomma vari modi esteriori per facilitare un processo di
esplorazione mentale di sé e del mondo circostante salvaguardandone la
spontaneità e l’imprevedibilità direzionale. C’è una struttura scolastica in
cui sono previste come materie di studio letteratura, filosofia e sociologia e
che dovrebbe offrire una cornice istituzionale a quelle curiosità, garantendo
livelli plausibili di storiografia e la spiegazione di testi base.
L’insegnamento della
filosofia per un verso è un addestramento come tutti gli altri: acquisizione di regole mediante associazione
fra intuito e ripetizione, instaurazione di una dimensione pubblica di validità
per certi enunciati, stabilizzazione di un lessico. Insomma, per dirla con
Wittgenstein, non si può seguire una regola privatamente. Per altro verso il contenuto dell’insegnamento,
contraddittoriamente, consiste nel mostrare, a differenza di altre tecniche,
che non c’è un modo unico né migliore di pensare, che non c’è un progresso
incontestabile nei sistemi filosofici, che è legittimo ogni volta riproporsi
gli stessi problemi e lavorarci con la propria testa, anche se si scopre ben
presto che il numero delle soluzioni non è illimitato e che tutte comportano
comunque una forte relazionalità. Infatti non c’è neppure un linguaggio
privato, ogni scelta filosofica implica un confronto plurale e un contesto
sociale comunicativo. Inoltre non è
facile definire il campo della filosofia, separandolo da altri affini, anzi
questo è uno dei casi in cui l’intreccio dei saperi è particolarmente fruttuoso.
Sociologia, antropologia e politica hanno a che fare con essa e sarebbe
prematuro distinguerle funzionalmente agli occhi di chi per la prima volta vi
si avvicina. Scienza ed filosofia sono state a lungo unite negli stessi
protagonisti, almeno sino alla fine del Settecento e sarebbe difficile negare
che autori come Freud, Einstein o Heisenberg pongano ancora nell’ultimo secolo
questioni epistemologiche essenziali –per non parlare del tipo di
formalizzazione della filosofia analitica. All’opposto per molti adolescenti il
primo approccio a problemi speculativi passa attraverso la lettura di poeti e
romanzieri, dentro (Dante,Leopardi) e fuori (Tolstoj, Dostoevskij, Kafka,
Rilke) dei consueti programmi scolastici. Non li biasimerebbero certo
Aristotele e Heidegger, che hanno fatto altrettanto con i tragici e con
Hölderlin, anzi la scuola dovrebbe utilizzare meglio la ricchezza di temi e
riferimenti contenuti in testi di scrittura invogliante e polisensa.
A
chi si rivolge alla filosofia scegliendo, dopo la conclusione dei cicli
dell’obbligo, corsi di studio che ne
comprendano la storia, ma anche a coloro che numerosi si iscrivono alle facoltà di filosofia senza
provenire dal vecchio liceo
classico e scientifico potrebbero venire in mente delle domande “ingenue”. A
che serve la filosofia? Conduce alla virtù? Procura qualche lavoro? Le risposte
che seguono esemplificano un modo di indirizzare una tendenza senza
prevaricarla o pretendere di suscitarla artificialmente.
A
che serve la filosofia? A niente.(nel senso che non si riferisce a un uso specifico).
Conduce
forse alla virtù? No (nel senso che essa stessa è virtù e premio a se stessa)..
Procura
almeno un lavoro? No (a meno che non ci si accontenti dei magri organici
dell’insegnamento della filosofia o di Rai Educational).
Le tre domande e risposte sono
evidentemente collegate fra loro. Le prime due potrebbero essere formulate in
ogni tempo, la terza si colloca strettamente nel presente e presuppone la fine
della figura tradizionale dell’intellettuale, sapienziale o organico, con cui
spesso il filosofo è stato identificato. Nella netta divisione fra lavoro
manuale e intellettuale la figura del filosofo si poneva come il mediatore del
consenso o, al contrario, l’organizzatore del cambiamento, la coscienza critica
della società. In tale contesto è stato rivendicato da Kant l’uso pubblico
della filosofia, prototipo di un impiego “politico” della cultura che
recentemente è stato applicato anche in altri campi, per esempio alla storia
contemporanea o al controllo democratico sulla ricerca scientifica. Dall’illuminismo all’intellettuale organico
gramsciano si è dipanato il filo continuo di un protagonismo filosofico che
dava per scontata la frammentazione dello spirito e del corpo e li ricomponeva
nel segno di un’egemonia culturale esterna alla moltitudine, individui, classi,
in un lento processo di innalzamento critico cui contribuivano istituzioni
separate –chiese, apparati statali e partiti. Un lavoro filosofico concepito
come libera attività individuale, senza ricadute pubbliche e rilevanza politica,
è da allora inimmaginabile. L’inutilità pratica immediata della filosofia era
compensata dalla sua utilità sociale per assopire o risvegliare le coscienze.
Il pericolo si annidava nella virtuale ancillarità rispetto ai poteri politici.
Il
carattere pubblico della filosofia era attestato, ma tenuto separato dalla vita
quotidiana, sovraimposto ad essa, anzi usato come un mezzo per condurre la
moltitudine dispersa all’unità dello Stato etico, dello Stato di Diritto, della
Dittatura del Proletariato. A torto o a ragione Hegel, Kant e Marx erano
ridotti a profeti di tali indirizzi –né del resto in passato erano stati meno
strumentalizzati Aristotele, Platone o Tommaso. Se assumiamo come dato di fatto
che oggi la tradizionale organizzazione del lavoro è stata sconvolta, che il
passaggio da un regime lavorativo fordista a uno postfordista non ha lasciato
inalterato il campo dell’otium, dal lavoro intellettuale separato, ma
anzi lo ha integrato pienamente dal momento in cui ha messo al lavoro
direttamente la capacità relazionale e l’attività mentale degli individui,
allora la filosofia cambia completamente ruolo e tutte le vecchie domande
slittano di senso. La conoscenza disinteressata e l’esperienza delle regole
sono diventate più importanti delle competenze specifiche, nella stessa misura
in cui il trattamento omogeneo dei dati si applica a campi assai diversi. Nell’era del lavoro atipico carriere e
biografie non si organizzano più intorno a professionalità sclerotizzate,
frullate e amalgamate nell’imbevibile cocktail delle “Tre I” (Impresa,
Internet, Inglese) dei noti cartelloni polari;
per altro verso una competenza sacerdotale umanistica non opera più da riunificatore o da mezzano nel
rapporto fra governo e masse.
A
cosa serve allora la filosofia? A nessuno scopo specifico ma allo scopo degli
scopi: a rimodellare riflessivamente il linguaggio, quel linguaggio che è
diventata la principale forza produttiva, come attitudine comunicativa del
lavoro vivo e come flusso formalizzato di informazioni nella gestione digitale
delle macchine e delle tecniche di produzione e controllo. La pratica
filosofica tende a confondersi con l’invenzione di nuovi giochi linguistici e
l’uso attivo della flessibilità, il cui lato passivo –stanti gli attuali
rapporti di produzione e lo sfruttamento del lavoro– è la precarietà degli
impieghi, l’inadeguatezza del reddito e
l’incertezza dell’ambito vitale. Lavoro, politicità, comunicazione e
relazionalità stanno insieme strettamente, sono il campo della contraddizione e
del conflitto, il luogo della
produttività come sottomissione oppure come rivolta. Il pensiero è messo al
lavoro, ma non come settore separato, bensì tutto calato nella corporeità,
astratto e potente come un software, stressabile come un operatore del
medesimo. E’ la materia prima dello
sfruttamento e il presupposto impersonale per l’individuazione di individui che
riconoscono come illusione la vecchia soggettività piena, eredità dell’anima
cristiana, che tanto a lungo aveva dominato
discorsi filosofici e pratiche sociali.
Per questo la filosofia non può neppure condurre a un’etica di codice o
di massima, ai Dieci Comandamenti variamente rivisitati o all’imperativo
categorico. E’ troppo embricata nella struttura della relazione, come del resto
Hegel aveva capito e argomentato benissimo. Per non parlare di Nietzsche e
prima ancora di Spinoza. Non serviva il
postfordismo, caso mai serve ricordarlo quando qualche attardato predicatore
quaresimale pretende una corresponsabilizzazione etico-ideologica al rischio e
alla precarietà, quando si fa della flessibilità (che è un dato oggettivo) un
valore cui sacrificare reddito e tempo di vita, quando si proclama che
conformarsi a qualsiasi fluttuazione è bello.
La virtù è fine a se stessa e in sé ha il suo premio. La virtù è potenza
e diritto della singolarità (il conatus spinoziano), libertà di pensiero
e di parola, rifiuto di assoggettarsi a un dominio esterno e pretesa di
socializzazione come naturale sviluppo di un individuo sociale. Non occorre
rievocare il martirio di Giordano Bruno. Basta citare la sfida all’Ibm da cui è
nato il personal computer con cui sto scrivendo. Alla richiesta di capacità di
adattamento –principale o quasi unico requisito per trovar lavoro– corrisponde una virtù e una disgrazia:
l’autonoma flessibilità inventiva e l’assoggettamento alle mutevoli esigenze
del mercato. La luce filosofica proietta l’ombra del servile. Non a caso i
laureati in filosofia sono assai richiesti per il delicato quanto imbarazzante
compito della selezione del personale. L’adattamento, a differenza della
prestazione oggettiva e dall’obbedienza alla legge, è servizio alla persona (o
all’impresa): inventare strategie relazionali, curare bambini e anziani,
simulare giochi di ruolo e di guerra. I filosofi sono pastori dell’Essere e addetti al catering,
inviano messaggi e portano pacchi. Bravissimi a conciliarsi con l’oppressione o
la semplice arroganza, ma anche ad accettare il nuovo, a contaminarsi con il
diverso. I peggiori concionano come tuttologi sui mass media. I più onesti (e malpagati) cercano di venire
incontro agli adolescenti addestrandoli, ove previsto, alla conoscenza di
alcuni testi classici del pensiero, magari un po’ soffocati dall’uso obbligato
della manualistica o dal pregiudizio storicistico che offusca tanto l’originalità
degli autori quanto l’inaggirabile attualità di certi problemi.
Cosa
potremmo suggerire a chi intende sollecitare la curiosità filosofica degli
adolescenti come espressione concentrata della loro spontanea relazionalità,
addestrare insomma all’uso pubblico della ragione nel nuovo contesto
postfordista? Come delineare, malgrado tutte le paradossali difficoltà di
regolamentare l’incontrollabile, dei percorsi curricolari, dei modelli
emblematici di apprendimento confrontabili e integrabili con quelli di altri
campi di insegnamento? Come rapportarsi alla costituzione reale dell’esperienza
giovanile, di cui quella scolastica è spesso solo il lato formale? Un tempo
poteva essere la trasmissione familiare di valori e abitudini oppure la precoce
socializzazione parrocchiale o politica, oggi verrebbe più da pensare a sale
giochi, PlayStation e modelli offerti dalla televisione e dalla pubblicità.
Eppure proprio da questa subcultura (detto senza benevolenza antropologica)
potremmo imparare –la stessa lancia ferisce e risana! Le capacità che vi sono
esaltate sono infatti l’attenzione distratta, la facilità di arrangiarsi con
giochi diversi sulla base della ricorsività delle regole, l’impegno simultaneo
di più sensi, la prontezza dei riflessi, l’abilità e il gusto di calarsi in
varie parti, il veloce apprendimento delle tecniche, la prevalenza della
chiacchiera socializzante e fine a se stessa sul ragionamento organizzato e
strumentalmente orientato a uno scopo –una tendenza che è stata sempre
adolescenziale, ma che ora si sposta verso l’età matura. Una cultura della
visione e dell’oralità più che della scrittura, il trionfo degli SMS sulle
lettere: ma questa è solo la superficie. In realtà lo straripamento della
comunicazione ciarliera e non verbale si innesta su una presenza diretta
dell’astratto, è un cortocircuito fra regole e flessibilità mentale. In contemporanea anche il lavoro (che Taylor
e tutti i capifabbrica volevano muto, come del resto lo studio in classe) è
diventato loquace, nel senso che si ricerca la collaborazione dei lavoratori,
li si fa discutere in gruppo per migliorare la qualità della prestazione e
adeguarla prontamente alla domanda variabile dei consumatori. La chiacchiera è
diventata produttiva e non richiede più un metadiscorso ideologico-politico
aggiunto esternamente per controllare il conflitto. L’elemento
ludico-linguistico è posto dentro il lavoro, dunque assume un ruolo
preminente anche nella fase della formazione, dell’addestramento generico a una
vita che sarà tutta sussunta in produzione, tempo libero compreso.
Tanto
vale suggerire percorsi e testi che mettano in luce la relazione diretta fra
pensiero e pratiche sociali, valendo da alternative al saccheggio passivo della
comunicazione e al vorace schiacciamento sul presente, il just in time del consumo produttivo e
culturale. La lontananza nel tempo serve anzi a scandire ipotesi insolite, che
evidenzino la produttività di lungo periodo della speculazione apparentemente
più astratta. Eccone alcune, a mero titolo di esempio.
Le Idee platoniche come falsa partenza
epistemologica, modello scientifico destinato a fruttificare dal Rinascimento
in poi e a precisare il proprio statuto nel dominio atemporale del “pensiero
senza portatore” di Frege, cioè delle verità distinte da cose e rappresentazioni.
L’importanza del sottovalutato filone neoplatonico nella storia della filosofia
occidentale, araba ed ebraica.
Aristotele:
la filosofia come elaborazione a partire dal linguaggio comune (gli endoxa),
in termini sia di teoria della conoscenza che di etica; l’opposizione fra il
suo schema di anima e l’ideologia cartesiana del Soggetto. Il ruolo
dell’intersoggettività e della dimensione socio-politica nel garantire
percezione e appercezione, identità e conoscenza dell’altro, nonché nel definire le virtù. Le
complesse vicende dell’eredità
peripatetica nella falsafa islamica e nella Scolastica cristiana fino
alla moderna “riabilitazione della filosofia pratica”.
Spinoza:
l’attribuzione al Dio-Natura del Pensiero e dell’Estensione legittima la pari
dignità di Corpo e Mente nell’ambito di una completa immanenza del Tutto
infinito nelle parti finite. Moltitudine, beatitudine e democrazia. Genealogia
di un materialismo aleatorio.
Il general
intellect come contenuto dell’individuo sociale in Marx anticipa il
pluralismo postfordista e la smaterializzazione del lavoro/produzione in Rete.
Hegel
e Nietzsche: polarità fra opposizione dialettica e opposizione reale,
svalutazione ed esaltazione del sensibile –le due grandi introduzioni alla
modernità.
Augusto
Illuminati insegna Storia della filosofia all’Università di Urbino. Fra le sue
più recenti pubblicazioni Racconti morali (Liguori, 1989), Esercizi
politici (manifestolibri, 1994), Averroè e l'intelletto pubblico
(manifestolibri, 1996), Il teatro dell'amicizia (manifestolibri, 1998), Completa
beatitudo (l'Orecchio di van Gogh, 2000).
Vincenzo Fano
Caro Augusto, ho letto con molto interesse e piacere la tua
nota sulla filosofia. Resta però il fatto che tu accenni sempre di striscio ai
due concetti fondamentali della filosofia dopo Hegel, cioè quello di verità e quello
di giustizia sociale. Certamente queste nozioni non si possono più affrontare
di petto come in fondo si è tentato in tutto l'ottocento, fino a Frege,
Husserl, Marx , tuttavia quello che tu dici mi sembra decisamente troppo poco.
Un adolescente che si avvicina oggi alla filosofia si trova a dover affrontare
una quotidianità problematica che tu descrivi fin troppo bene, ma ci sono
alcune domande che egli, in qualche modo, viene a porsi,alle quali la filosofia
certo non può rispondere, ma può consentirgli di allargare il ventaglio delle
possibili risposte. In questo senso, la filosofia non lo aiuta a trovare se
stesso, illusione che, come ben dici, è giustamente perduta, ma lo aiuta a
diventare un animale sociale. in questo senso è decisivo l'apprendimento della
logica, come Enzo Melandri già notava negli anni 60 quando faceva tradurre
Copi, che è riapparso di recente in un'edizione molto ampliata sempre per il
Mulino. E' fondamentale la retorica, intesa come studio linguistico delle
argomentazioni, quella di Perelmann, per intenderci. E' decisiva la conoscenza
della scienza, non tanto per conoscere come funzionano le cose che manipoliamo
quotidianamente,ma per capire il senso profondo della seconda Rivoluzione
industriale,quella dell'elettricità per intenderci. In particolare capire
l'importanza dell'invisibile, l'elettricità appunto, l'informazione ecc. e
capire quanto tenue sia il legame fra spiegazione scientifica e prassi
tecnologica. Infondo comprendere quanto la scienza sia poco scientifica e
profondamente umana, la più umana di tutte le scienze.Qualcosa di questo genere
è il presupposto, dopo cominciano i problemi veri,a cominciare da quello della
verità. Esiste la verità o è un concetto ridondante? e se esiste, va cercata?
Ha valore in sé? Qual è il rapporto fra verità e giustizia? C'è una sola
giustizia? E così via ripercorrendo la riflessione dei grandi, da Platone a
Spinoza, Da Marx a Wittgenstein.Solo a questo punto ci si cala nella realtà, la
divisione del lavoro, la flessibilità, i media, i rapporti economici, gli
aspetti estetici della società contemporanea, e quelli ludici. Cioè a questo
punto la filosofia,che non è più tale, fa entrare in gioco le emozioni e ci
aiuta, assieme a tante altre cose, a muoverci nella selva che si costruisce fra
queste ultime e i simboli.In pratica, al tuo posto avrei proceduto al
contrario, in modo analitico e non sintetico come hai fatto tu. Comunque
complimenti è molto interessante.