2005
Istituto di Filosofia Arturo Massolo
Universit
di Urbino
Isonomia
La solitudo in Spinoza*
Elisa Basili
Universit di
Urbino ÒCarlo BoÓ
Abstract
The
following article aims to address the meaning of the term solitudo as used by Spinoza in his works and theory. The manner in which this
intense and diverse word is used in various forms by the Dutch philosopher is
considered (selected passages from Political Treatise and Ethics).
The
hypothesis which is therefore disproved is that what binds the various
incursions of the term solitudo is the authorĠs
desire to depict a negative condition of human existence, an Òanti-conditionÓ,
as it were. Where an individual, despite being physically present in society, is not entirely part of society nor fully partakes
in society, be it due to corrupt political powers or be it due to a personal
choice, there solitudo, war, an incomplete
existence – the useless distribution of power, exist. Hence, a viable,
however daring, approach and comparison is put forth between this manner of
incomplete human existence and the existence of the mass-individual, of the
apolitical individual, described by many philosophers and sociologists as the
typical member of modern contemporary society, a society that has often been
fashioned as the architect of the apolitical, of individualism and of atomism as well as the nurturer of modern concrete forms of slavery.
Trattare
dellĠuso e delle accezioni specifiche che Spinoza fa del termine solitudo pu
sembrare per certi versi paradossale, trattandosi di colui che ha costruito,
cos come la definisce Balibar, lĠÇontologia
della relazioneÈ[1]. Il
forte accento che questa definizione pone sul carattere transindividuale della
sua filosofia potr sembrare adeguato soprattutto se si guarda al soggetto, o,
se si vuole, ai soggetti di questa relazione: la sostanza e i modi[2].
Il cosmo che
Spinoza descrive stretto nella unit dei modi nella sostanza ed proprio nel
continuo permearsi di questo unico (ma plurimo) soggetto che la ragione, la
spinoziana ratio, trova il luogo del proprio essere e se ne scopre
parte. Si scopre uguale, ma profondamente parziale rispetto al tutto, e scopre
la libert di essere nel tutto che trova ragione solo nellĠassoluta necessit
del suo essere che per il tutto basta.
é dunque
soprattutto nella relazione tra i modi, e tra i modi e la sostanza, che Spinoza
cementa la propria ontologia, su cui poi modella la propria antropologia e cos
anche la politica, che nellĠontologia trova ragioni fondanti. Ed nellĠambito
della politica intesa come vivere civile, come scienza dellĠumana relazione,
fulcro del sociale e dei suoi rapporti, che entra in gioco il tema della solitudo.
Come pu lĠuomo
immaginare una vita isolato dai suoi simili e dunque escluso dal contesto che
lo conduce alla spinoziana virt? Pu lĠuomo trovare la libert vivendo in solitudo,
ammesso che vi sia la possibilit di vivere al di fuori di una qualsiasi
societ? E ancora, ci sono delle condizioni per cui lĠuomo pu tendere alla solitudo,
esistono condizioni di vita sociale che portano lĠindividuo verso lĠumano
deserto? E se s, sono stabili, sono secondo ragione? Quali sono dunque i volti
della solitudo nella riflessione spinoziana?
Il
filosofo inizia a risponde ad alcuni di questi interrogativi nella quarta parte
dellĠEtica, dove per la prima volta utilizza il termine solitudo. E lo
fa proprio nel contesto in cui sta spiegando la relazione reciproca tra vita
umana, ragione e libert, ovvero nella proposizione LXXIII, che qui riporto:
ÇlĠuomo che guidato da ragione pi libero nello Stato, dove vive secondo un
decreto comune, che nella solitudine, dove obbedisce soltanto a se stessoÈ[3].
In questo passo
egli stabilisce una stretta relazione tra vita secondo ragione, ovvero libert,
e vita sotto regole comuni allĠinterno dello stato. Questi termini sembrano
essere legati tra loro e la chiave di questa unione pu essere trovata solo
nellĠontologia e nella dinamica del conatus, a cui prima si
accennava. Il conatus, in quanto sforzo, potenza, forza propulsiva e
– come insegna la fisica classica che proprio ai tempi di Spinoza andava
delineandosi – due o pi forze che spingono nella stessa direzione si
sommano, e quindi ne risulta una forza pi grande, equivalente alla loro somma.
Ma se una forza rimane isolata o, ancor peggio, si oppone a unĠaltra forza, non
si verifica altro che un dispendio di forze, un annullamento reciproco che va
contro la ricerca dellĠutile, nonch contro ragione.
La potenza, poi,
nelle conseguenze socio-politiche che Spinoza ricava dalla sua ontologia, non
altro che il diritto dellĠindividuo: dunque pi potenza, pi diritto.
Nella
dimostrazione della proposizione LXXIII, lĠautore motiva la relazione
instaurata tra ragione, libert e Stato e pone come conditio sine
qua non della dimostrazione stessa il vivere secondo i
dettami della ragione, e non nella paura[4]. é
dunque il vivere secondo ragione che ci indirizza verso la vita comune, che
consiste nellĠadesione ai precetti dello Stato, e ci conduce alla libert
nellĠunico luogo dove cĠ davvero lĠuscita dalla solitudo,
lĠevasione dal deserto. Ed proprio con il termine deserto che
Paolo Cristofolini rende il termine solitudo al suo secondo
comparire nel corpus degli scritti spinoziani, ovvero al ¤ 4 del capitolo
V del Trattato politico, nel quale nel quale si tratta del tema della guerra
e della pace:
una cittadinanza
i cui sudditi non prendono le armi per paura, da dirsi senza guerra piuttosto
che in pace. La pace non la privazione della guerra, ma una virt che
scaturisce dalla forza dĠanimo; lĠobbedienza infatti (per lĠarticolo 19 del
capitolo II) la costante volont di eseguire ci che va fatto per comune
decisione della cittadinanza. Ma una cittadinanza la cui pace dipende
dallĠinerzia dei sudditi, che si lasciano condurre come pecore per imparare
soltanto a servire, piuttosto che cittadinanza potr chiamarsi deserto.[5]
La scelta del termine
ÇdesertoÈ per tradurre in questo luogo solitudo motivata da
Cristofolini, nel lessico ragionato posto in Appendice alla sua edizione
italiana dellĠopera[6], con
lĠintento di rendere lĠidea di un luogo desolato, privo di ci che rende la
vita dellĠuomo degna di essere vissuta. Ma, se per certi aspetti la scelta
lessicale fatta dal traduttore restituisce la crudezza della vita vuota e priva
di ci che la rende umanamente tale, forse il latino solitudo
include una gamma pi ampia di significati possibili[7].
Nello stato in cui i cittadini sono Çriuniti solo dal timore di un padroneÈ
– come sintetizza Balibar – Çed esso stesso in preda al timore di
coloro che lo temono, gli individui comunicano negli stessi affetti, [É] ma non
hanno un oggetto veramente comune; comunicazione minima [É] rispetto al quale
lo stato di societ si distingue solo di nome dallo Ôstato di naturaĠ;
moltitudine allora sinonimo di solitudineÈ[8].
Il
tema della solitudine nella massa[9],
delle infinite solitudini che la saggistica contemporanea non smette di
evidenziare nella rete del mondo moderno si pu, forse con un poĠ di audacia,
rintracciare tra le righe del passo spinoziano. Se si legge il mondo globale,
senza dubbio infinitamente lontano da quello in cui il filosofo viveva, come grande
complesso composto di unit che molto spesso non partecipano coscientemente
allĠadesione al sistema e che sempre pi frequentemente Çnon prendono le armi
per pauraÈ o, se vogliamo, per rassegnazione, vediamo certo qualcosa di molto
diverso da ci che aveva in mente lĠautore dellĠEtica, ma a
cui ben si adatta la situazione di desolazione del deserto, della pace intesa
solo ed esclusivamente come privazione del conflitto, anzich come Stato
fondato sulla concordia degli individui, cio degli esseri che lo compongono.
Il leggere la solitudo spinoziana come paradigma della societ moderna
certo, ne sono conscia, una forzatura, una provocazione, ma lĠacutezza del
passo del filosofo olandese ha, a mio parere, focalizzato quello stato di
inerzia politica che caratterizza lĠuomo in ogni tempo, quando abbandona la
ragione e si lascia trasportare dalla paura o, nel nostro caso, dalla sfiducia
e da quantĠaltro di ancora non del tutto messo a fuoco, magari per mancanza di
conoscenza adeguata. In fin dei conti il carattere di inerzia, che molti
studiosi contemporanei rilevano nellĠatteggiamento dellĠattuale societ[10],
pur sempre una forma di sudditanza, se non nei confronti di un dispotico
monarca, pur sempre di un sistema molto complesso e in cui difficilmente si
distingue colui o coloro che ne detengono le redini.
Ma torniamo a
trattare pi da vicino lĠargomento in questione: indicavo precedentemente che
al ¤ 4 del capitolo V del Trattato
politico Cristofolini traduce solitudo con deserto, per
rendere il contrasto con cittadinanza. Invece,
nellĠaltro luogo in cui il termine solitudo compare
testualmente, ovvero il ¤ 1 del capitolo VI, il traduttore adopera il termine
italiano pi etimologicamente vicino a quello latino, ovvero solitudine.
Siccome gli
uomini, sĠ detto, si fanno guidare dagli affetti pi che dalla ragione, anche
il popolo viene indotto a naturale accordo non dalla ragione, ma da qualche
comune affetto, e vuole essere guidato come da una sola mente, vale a dire
(come abbiamo detto allĠarticolo 9 del capitolo III) da una comune speranza, o
paura, o desiderio di vendicare un danno comune. DĠaltra parte in tutti gli
uomini la paura della solitudine,
poich in solitudine nessuno ha la forza di difendersi e di procurarsi il
necessario per vivere; ne consegue che gli uomini per natura desiderano lo
stato di civilt, e non pu mai accadere che essi lo sciolgano del tutto.[11]
Vediamo qui
emergere il metus solitudinis: Çin questa situazione-limiteÈ
– annota Cristofolini – ÇSpinoza condensa il panico esistenziale,
che Hobbes focalizzava invece nel metus mortis, a partire dal
quale gli uomini vengono di necessit alla convivenza civileÈ[12]. Ma,
come lo stesso studioso evidenzia altrove, Çla paura di cui parla Spinoza [É]
pi sofisticata, pi civile e al tempo stesso pi pervasiva: pi densa, forse,
di futuroÈ[13].
Il metus
solitudinis un sentimento intimo, ma comune a tutti, proprio
dellĠuomo, lo caratterizza, e da ci deriva la sua importanza, anche se si
tratta di una passione triste. Per il filosofo della relazione, del
transindividuale, la paura che fonda il vivere insieme, lĠumano e ineliminabile
sentimento (affectus) che di natura ci spinge a convivere nella societ,
nella cittadinanza, dunque la paura della solitudine. La relazione che forse
gi Spinoza aveva stabilito con il metus mortis hobbesiano
chiara: il modo, da solo, non pu vivere senza annullare il proprio conatus;
nella sua natura cĠ questa eco, che lo richiama allĠunione con il prossimo, in
maniera diretta, per paura della solitudine e non per il terrore della propria
morte. In solitudine lĠuomo perde la propria ragione dĠessere, non pu giungere
alla virt, non pu seguire la propria strada e partecipare attivamente e
positivamente alla potenza del tutto.
Il metus
solitudinis allora – come stato acutamente osservato
– quel Çraro lato virtuoso della pauraÈ, Çla condizione esistenziale e
primordiale della vita umanaÈ, Çil meccanismo psicologico primario da cui
scaturisce il bisogno di istituzioni civiliÈ[14].
DĠaltra parte
lĠavversione per la solitudine non poteva non essere provata (e non poteva non
essere trattata) dal filosofo dello scandalo e della scomunica. Il dolore che
Spinoza aveva sentito per la propria esclusione dalla comunit ebraica lo aveva
senza dubbio segnato, lĠanatema rivoltogli lo aveva inevitabilmente ferito e le
conseguenze dellĠesclusione le aveva sperimentate sulla propria pelle. Non
intendo assolutamente sostenere che nel pensiero dellĠateo virtuoso trovi posto
una qualche personale esperienza che forzi in qualche lato la lucida coerenza
del sistema: per chi meglio di colui che ha provato su di s la minaccia
dellĠemarginazione pu comprendere lĠimportanza della comunit e dare a essa un
valore adeguato?
Si trova qui
unĠulteriore conferma della teoria spinoziana per cui le passioni, o meglio gli
affetti che ci attraversano, sono propri dellĠuomo e ineliminabili; ma che se
indirizzati e orientati da un progetto razionale possono essere utili al vivere
civile. Pi volte nel Trattato politico Spinoza mostra
il suo realismo sostenendo che mai si avr una cittadinanza in cui tutti siano
governati da ragione, n tanto meno si addentra nella descrizione di modelli
utopici che lascino troppo spazio al come se. La sua una
trattazione che tiene conto degli affetti umani e, senza ingabbiarli nella rete
del giusto e del peccato, cerca di ideare sistemi politici dove gli individui
possano muoversi secondo ragione. Dunque, anche se non tutti potranno seguire
la via razionale (che anzi, commenta spesso, preclusa ai pi), necessario
che almeno il sistema sia razionale, in modo da comprendere al suo interno la
possibilit stessa di individui passionali. A volte le
passioni sono utili anche in questo: ed il caso del metus solitudinis, che
fa in modo che Çgli uomini per natura desiderino lo stato di civiltÈ. In
questo modo lĠuomo che non segue la ragione trova ugualmente utile uno stato
razionale e, nel medesimo stato di civilt, lĠuomo saggio ha la possibilit di
seguire la virt anche intimamente e relazionalmente. Nello stesso capitolo VI,
Spinoza torna a nominare la solitudo appena poche
righe pi sotto, al ¤ 4. Questa volta abbiamo un passo che ricorda pi il gi
visto ¤ 4 del capitolo V, che quello appena citato. Anche questa volta la solitudo viene
chiamata in causa nel nodo che cerca di distinguere tra pace e mancanza di
guerra:
LĠesperienza per
sembra insegnare, al contrario, che il conferimento di tutto il potere a uno
solo giovi alla pace e alla concordia. Nessuno stato ha resistito cos al lungo
e senza mutamenti degni di nota, come quello dei turchi; e di contro, non ve ne
sono stati di meno durevoli di quelli popolari, o democratici, e dove si
manifestassero tanti movimenti sediziosi. Ma se pace si devono chiamare la
schiavit, le barbarie e la desolazione [solitudo], non vi per gli uomini maggiore miseria della pace. é vero che
scoppiano pi numerosi e aspri litigi tra genitori e figli, che tra padroni e
servi; tuttavia non giova allĠeconomia domestica che il diritto paterno si
trasformi in dominio padronale, e che i figli siano ridotti a servi. Giova alla
causa della schiavit, non a quella della pace, che tutto il potere sia
trasmesso a uno solo: la pace, come gi abbiamo detto, non consiste nella
mancanza di guerra, ma nellĠunione, ossia nella concordia degli animi.[15]
Il termine solitudo qui reso con
ÇdesolazioneÈ, per sottolineare, come era stato fatto con lĠuso del termine
deserto, il senso di inadeguatezza di quella condizione. é pi che un metus, pi
che una paura, un timore esistenziale: una condizione concreta. Se nellĠaltro
passo citato, quello di rimanere soli e non riuscire a provvedere alla propria
vita un timore comune a tutti gli uomini, tanto da esserne una
caratteristica, questa condizione di sudditanza per cui Spinoza usa – e
non credo sia un caso – lo stesso termine, non una minaccia, ma una
stato di cose concreto, provato sulla pelle, tanto che egli stesso riporta un
esempio storico, bench ÒesoticoÓ e indice della sua non condivisione
dellĠassolutismo monarchico.
Questa
desolante condizione viene s avvertita dagli uomini, ma coloro che non sono
guidati da ragione la vivono senza cambiare niente in senso razionale. Certo,
anche qui entra in gioco la paura, quella con cui il tiranno tiene sotto scacco
il popolo, come il filosofo ricorda in pi luoghi (tra cui il gi citato ¤ 4
del capitolo V), ma il fatto che uno stato del genere non tenda automaticamente
al rivolgimento un elemento per dimostrare che coloro che lo compongono,
sopraffatti dalla paura e non illuminati dalla luce della ragione, non comprendono
la possibilit di un rivolgimento che porti a una maggiore utilit e libert.
Il fatto che Spinoza, anche in questo passo, preferisca lo stato democratico,
ben pi problematico, instabile e difficile da gestire, a un ordinato stato
tirannico, segnato dalla sudditanza, non dovuto non semplicemente a
unĠadesione filantropica nei confronti di un sistema che guidi verso una sempre
pi ampia espressione della moltitudine, ma trova radice in seno ai princpi
del suo sistema, come ricordavo anche in precedenza. Uno stato in cui tutti
obbediscono per paura a un sistema che non tagliato sullĠumana natura, ma sul
capriccio del singolo, non possiede dunque quella potenza, quel potere che
spetta a un regolato e ragionevole stato democratico. LĠinsieme delle potenze,
indirizzate in senso razionale, sono infatti la miglior forma di societ per il
filosofo di Amsterdam. é questo il modello di civitas che
meglio conserva la potenza naturale dei singoli, che in maniera pi utile
esprime il potere della cittadinanza tutta preservando comunque lĠidentit di
ciascuno. é da questo stato che sembra allontanarsi nella maniera pi assoluta
la solitudo, e questo avviene soprattutto perch nello stato
democratico lĠindividuo, cos come la moltitudine, sui juris e non
alterius juris. La condizione democratica dunque opposta a quella
della solitudo, dove la moltitudine passiva, come un gregge di
pecore che obbedisce per paura. LĠordinamento democratico il pi utile,
perch conserva quello che il fine dello stato, ovvero la pace e la
sicurezza, in un equilibrio che non si trova in nessun altro regime politico.
La democrazia si disegna sulla base della dialettica tra monarchia e
aristocrazia, delle quali lĠuna privilegia in partenza lĠeguaglianza, lĠaltra
la libert e per questo la miglior forma di stato possibile[16].
Dunque nel
sistema di Spinoza solitudo e governo democratico sono gli
opposti paradigmatici della possibile condizione umana: la barbarie e
lĠincivilt dellĠapolitico, contro la miglior forma di governo che si possa
pensare per dar piena espressione allĠumano esistere. Da una parte lo stato in
cui ogni libert negata, dallĠaltra il regno della libert che si alimenta
dellĠequilibrio pi utile tra pace e sicurezza. Il luogo ove la ragione
schiava o cieca, opposto a quello dove il singolo ha la libert di vivere
secondo ragione e la moltitudine guidata da un sistema razionalmente
costruito.
La solitudine, il
deserto, la desolazione o, aggiungerei, il vuoto costellato di singoli,
quello che Spinoza rifugge, accostandolo pi volte alla barbarie. é quasi una
situazione limite, una figura in cui si incarna il fantasma dellĠasociale,
dellĠapolitico. La solitudo privazione, inadeguatezza,
sudditanza e annullamento di se stessi come esseri liberi; perch in quella
condizione negato lĠaffermarsi della propria natura di uomini (conatus),
negata la possibilit di perseguire la virt, offuscato il giusto equilibrio
tra passioni e ragione che sta alla base dellĠagire umano.
La solitudo si
concretizza ogni qual volta lĠuomo non libero, nel senso spinoziano del
termine: perch nessuna forma politica pu sopravvivere alla perdita di libert
senza diventare solitudo, perch nessuno stato pu sopravvivere quando viene
meno il fine per cui si costituito, e quel che rimane solo deserto e
desolazione.
Balibar, E.,
1996, Spinoza e la politica, Roma, Manifestolibri.
— 1993, DallĠindividualit
alla transindividualit, conferenza tenuta a Rijnsburg il 15 maggio 1993,
adesso in Balibar, E., 2002, Spinoza. Il transidividuale, a
cura di L. Martino e L. Pinzolo, Ghibli, Milano, pp.103-147.
Cristofolini, P.,
2002, ÇLa paura della solitudineÈ in Id, Spinoza edonista, Pisa,
Edizioni ETS, pp. 17-23.
Giancotti, E.,
1970, Lexicon Spinozanum, 2 voll., La Haye, M. Nijhoff.
— 1985, Baruch
Spinoza 1632-1677, Roma, Editori Riuniti.
Spinoza, B.,
1988, Etica, trad. it. di E.Giancotti, Roma, Editori Riuniti.
— 1991. Trattato
politico, trad. it. di L. Pezzillo, Bari, Laterza.
— 1999, Trattato
politico, a cura di P. Cristofolini, Pisa, Edizioni ETS.
* Le pagine che seguono
prendono spunto dal testo di una relazione a suo tempo presentata nellĠambito
del corso di Storia della filosofia politica tenuto dalla prof.
Daniela Bostrenghi nellĠa.a. 2002-2003 sul tema Modernit e Politica, dedicato alla lettura
e commento dello spinoziano Trattato politico.
[1] Cfr. Balibar (1996).
[3] Spinoza (1988, 282).
[4] ÇLĠuomo, che guidato
da ragione, non indotto dalla Paura ad obbedire; ma in quanto si sforza di
conservare il proprio essere secondo il dettame della ragione, cio, in quanto
si sforza di vivere pi liberamente, desidera di osservare la regola della vita
e dellĠutilit comune, e conseguentemente di vivere secondo decreto comune
dello Stato. LĠuomo, che guidato da ragione, desidera dunque, per vivere pi
liberamente, di osservare le leggi comuni dello StatoÈ [Spinoza (1988, 282)].
[5] Spinoza (1989, 83);
corsivo mio. Riporto anche il testo latino pubblicato a fronte: ÇCivitas, cujus
subditi, metu territi, arma non capiunt, potius dicenda est, quod sine bello
sit, quam quod pacem habeat. Pax enim non belli privatio, sed virtus est, quae ex
animi fortitudine oritur: est namque obsequium (per Art. 19. Cap.2.) constans voluntas id
exequendi, quod ex communi Civitatis decreto fieri debet. Illa praeterea
Civitas, cujus pax a subditorum inertia pendet, qui scilicet, veluti pecora
ducuntur, ut tantum servire discant, rectius solitudo, quam Civitas dici
potestÈ (ibidem,
82).
[6] Spinoza (1999, 246).
[7] Per la dicotomia che
nel testo originale resa con i termini civitas e solitudo (tradotta da
Cristofolini con ÇcittadinanzaÈ e ÇdesertoÈ) Lelia Pezzillo, nella sua
traduzione del Trattato politico (Spinoza, 1991) preferisce usare i termini
ÇStatoÈ e ÇsolitudineÈ. Il primo termine risulta forse meglio reso con cittadinanza, in quanto forse pi
sgombro, rispetto a Stato, dalle accezioni che la modernit gli ha
assegnato, rendendo in modo pi neutro la definizione di gruppo organico
costituito da una pluralit di individui. Per quanto riguarda solitudo, aggiungo che il
termine ÇdesertoÈ sembra guardare la condizione prospettata come dallĠalto, in
una situazione, se vogliamo, panoramica. Il deserto non ha soggetto. La
traduzione con ÇsolitudineÈ abbraccia invece una prospettiva pi individuale e
proprio per questo sar preferita da Cristofolini in altri luoghi del testo,
anche se a mio parere non da oscurare neanche in questo passo la prigionia di
se stessi che la solitudo implica nella sua dimensione individuale, che
forse la scelta del calco ÇsolitudineÈ restituisce meglio, anche se
probabilmente in maniera un poĠ troppo letterale.
[8] Balibar (1996, 125-126).
[9] Uso il termine ÇmassaÈ
per indicare gli individui nella societ contemporanea.
[10] Si veda, per esempio,
il profilo sociale disegnato da Bauman (2000).
[11] ÇQuia homines, uti
diximus, magis affectu, quam ratione ducuntur, sequitur multitudinem non ex
rationis ductu, sed ex communi aliquo affectu naturaliter convenire, et una
veluti mente duci velle, nempe (ut Art.9. cap.3. diximus) vel ex communi spe,
vel metu, vel desiderio commune aliquod damnum ulciscendi. Cum autem
solitudinis metus omnibus hominibus insit, quia nemo in solitudine vires habet,
ut sese defendere, et quae ad vitam necessaria sunt, comparare possit, sequitur
statum civilem homines natura appetere, nec fieri posse, ut homines eundem
unquam penitus dissolvantÈ [Spinoza (1999, 86-87)].
[12] Ibidem, 246.
[13] Cristofolini (2002,
10).
[14] Ibidem.
[15] Spinoza (1999, 88-89).
ÇAt experientia contra docere videtur, pacis, et concordiae interesse, ut omnis
potestas ad unum conferatur. Nam nullum imperium tamdiu absque ulla notabili
mutatione stetit , quam Turcarum, et contra nulla minus diuturna, quam
popularia, seu Democratica fuerunt, nec ulla, ubi tot seditiones moverentur.
Sed si servitium, barbaries et solitudo pax appellanda sit, nihil hominibus pace
miserius. Plures sane, et acerbiores contentiones inter parentes et liberos,
quam inter dominos, et servos moveri solent, nec tamen Oeconomiae interest Jus
paternum in dominium mutare, et liberos perinde, ac servos habere. Servitutis
igitur, non pacis, interest, omnem potestatem ad unum transferre: nam pax, ut jam
diximus, non in belli privatione, sed in animorum unione, sive concordia
consistitÈ (ibidem,
88). Anche in questo paragrafo la Pezzillo preferisce rendere solitudo con il pi letterale
ÇsolitudineÈ, probabilmente in seguito a una scelta di vicinanza, anche
lessicale, al testo originale, come del resto lĠautrice precisa nella Prefazione alla sua traduzione
italiana [Spinoza (1991)].
[16] Cfr. ancora Balibar
(1996, 100).