Manuela Sanna, La “fantasia, che è l’occhio dell’ingegno”. La questione della verità e della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001

 

Prendendo le mosse dal dibattito filosofico del Sei-Settecento sulla questione gnoseologica della fondazione del vero, l’interessante lettura proposta dall’autrice colloca le riflessioni vichiane sul controverso rapporto tra immaginazione e ragione all’interno di un più ampio orizzonte problematico, fornendo così un prezioso contributo ad una più accurata ricostruzione di tale tematica e mettendo contemporanemente in luce l’originalità della proposta filosofica di Vico. Prendendo le distanze dall’idea, assai condivisa, che fantasia e ragione costituiscano due principi antitetici, Vico assume infatti una posizione che apre il campo «alle indagini fondate sull’analisi del concetto di verità come composizione e non più come intuizione» (p. 10). Nucleo della ricerca è pertanto la tematizzazione del concetto di ingenium quale capacità di unificare ciò che è separato, di “comporre” immagini attraverso la fantasia, facoltà che risulta dunque fondamentale per riconoscere e per rappresentare il vero.

La metafisica di Vico viene delineata e chiarificata nel contrasto con quella cartesiana e col relativo metodo. «Nella costruzione cartesiana delle quattro facoltà utili alla conoscenza, vale a dire l’intelletto, l’immaginazione, il senso e la memoria, solo l’intelletto è capace di percepire la verità» (p. 13). Com’è noto, per Cartesio si deve ricorrere a sensi ed immaginazione soltanto quando si tratta di conoscere qualcosa che si riferisce al corpo, mentre essi «sono di ostacolo» quando si tratta di conoscere cose non corporee: pertanto mentre la fisica, come scienza dei corpi, necessita dell’ausilio dell’immaginazione, la metafisica nasce dal solo intelligere. Nella prospettiva vichiana, invece, la facultas imaginandi, mediatrice tra intelletto e senso, è facoltà della «finzione», capace di inventare immagini nuove e, come tale, importante strumento cognitivo.

Nella prima parte della ricerca, intitolata Metafisica del senso e metafisica del vero, l’autrice ripercorre la genesi del concetto vichiano di ragione e, in questo contesto, affronta la trattazione dell’ars inveniendi, intesa come possibilità di far scaturire elementi nuovi nel processo cognitivo, contro un’idea di scoperta come mero sviluppo di verità già implicite nelle premesse. Vico infatti ritiene giustificabile il metodo cartesiano limitatamente al campo delle matematiche, mentre negli altri ambiti del sapere oppone al sillogismo l’inventio, alla deduzione la scoperta. «L’inventio rappresenta una radicale novità rispetto alla tecnica sillogistica perché dispone di una costruzione genetica del reale, e mentre l’intelletto produce azione creatrice direttamente con il suo proprio facere che è già produzione concettuale, l’immaginazione – strumento dell’ingegno – non fa, ma configura le cose, conferisce loro delle immagini e le mette a disposizione dell’intelletto che di queste non potrebbe fare a meno» (p. 43).

L’ingenium, dunque, procede per elaborazione di somiglianze, costruite a partire da un materiale interno, momentaneamente obliato, attraverso la tecnica dell’inventio (secondo il duplice significato di “invenzione” e “ritrovamento” contenuto nel termine latino). Esso costruisce nessi tra le immagini e li mette al servizio dell’intelletto, estendendo il potere di quest’ultimo anche alle cose sconosciute e non viste. In questa prospettiva, l’ingenium viene a rappresentare una peculiarità dell’uomo in quanto espressione del tentativo di colmare un limite della mente; unicamente Dio, infatti, vede il tutto in una visione, che è conoscenza esatta, mentre l’uomo può soltanto immaginarlo attraverso delle finzioni. «La conoscenza per distinzione rende difficile e per ciò stesso impossibile la comprensione dell’insieme che si verifica con l’intelletto, e si connota come esclusivo esercizio divino. Solo l’intervento dell’imaginatio amplia la prospettiva ed elargisce all’uomo l’accesso a uno sguardo d’insieme fatto dall’inventio contro “i naturali limiti delle cose”» (p. 53).

Dall’accurata ed esaustiva ricostruzione critica compiuta dall’autrice, emerge pertanto che nella metafisica vichiana la fantasia è necessaria all’uomo quanto l’intelletto ed è dotata di struttura ed essenza autonoma rispetto a questo: essa «è l’occhio dell’ingegno, come il giudizio è l’occhio dell’intelletto»[1]. Infatti, «l’operare fantastico determina una tensione creativa tra piano del reale e piano del possibile» (p. 61), sperimenta i possibili rapporti tra le cose, configurando lo spazio del verosimile, intermedio tra vero e falso. E dalle somiglianze che, tramite esso, vengono scorte e portate alla luce, si genera il senso comune, base del  comportamento sociale.

Attraverso un’analisi della posizione vichiana rispetto al tema del ridicolo, viene poi chiarificata la distinzione tra un uso corretto ed uno deviante dell’ingenium, dunque «fra ingenii acumen, che riconduce a un’unica verità le cose scisse fra di loro, e gli arguta dicta, che creano delle relazioni superficiali e apparenti» (p. 74). La simulazione della verità generata da questi ultimi non corrisponde affatto al verosimile e non produce alcuna conoscenza, rivolgendosi piuttosto, attraverso il riso, alla parte bestiale ed animalesca dell’uomo. Anche i monstra, quali centauri, sirene e chimere, sono prodotti dell’ingegno, ma ancora privo del pieno sviluppo della propria capacità sintetica: in essi, a differenza di Cartesio, Vico scorge non una patologia, bensì i frutti di uno stadio infantile dell’evoluzione umana.

La seconda parte della trattazione, piuttosto eterogenea rispetto alla prima, è intitolata La metafisica come metodo; in questa sede l’autrice prende in esame il capitolo Riprensione delle metafisiche di Renato Delle Carte, di Benedetto Spinosa e di Giovanni Locke incluso nella Scienza Nuova del 1730, modificato nel 1731 ed infine soppresso nella redazione del 1744, ricostruendo in modo estremamente dettagliato un dialogo a più voci che è possibile leggere in filigrana nell’opera del filosofo napoletano. La Riprensione viene infatti assunta quale «esempio emblematico di come il dibattito sull’ “idea di vero” sia larvatamente ancora dibattito su Cartesio, che non si è giammai interrotto» (p. 92). Attraverso la discussione polemica dei sistemi filosofici di Descartes, Spinoza e Locke, Vico prende posizione anche contro l’epicureismo e lo stoicismo in essi rintracciabili. «Mentre Spinoza rappresenta la diramazione cartesiana che conduce a una riproposizione del pensiero stoico, Locke per Vico indica l’altra via che parte da Renato, ossia il recupero dell’epicureismo» (p. 106). La sostituzione del concetto di Provvidenza con quello di Caso-Necessità, insieme all’affermazione della mortalità dell’anima e della schiavitù dalle passioni, presenti in tali filosofie, minano dall’interno il concetto di “umana società”.

La soluzione indicata da Vico è la riproposizione del platonismo, che stabilisce come principio delle cose l’idea eterna: egli dunque non accetta «in metafisica alcuna idea di vero che non abbia cominciamento dal vero ente, cioè da Dio» (p. 108) e rigetta le elaborazioni di Cartesio, Spinoza e Locke, poiché sostituiscono ad una “scienza dell’ente” una scienza della “sostanza”, idea composta e pertanto non coincidente col vero ente. Di contro ai “paralogismi delle metafisiche” e ai “filosofi solitari”, Vico attesta dunque la necessità di un pensare metafisico alla maniera platonica, quale autentica possibilità umana che si costituisca come ontologia e da cui emergano categorie politiche volte a sviluppare la collaborazione di filosofia e legislazione.

 

Benedetta Zavatta



[1] G. B. Vico, De antiquissima italorum sapientia, in Id., Opere filosofiche, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1990, p. 126.