Daniela Pellegrini
Istituto di Filosofia, Via
Saffi 9, 61029 Urbino
Alcune
note sulla gestione mediatico-spettacolare delle guerre balcaniche
degli
anni ’90*
Summary: The media coverage of the Balcan
crisis in the 1990s may be interpreted in the light of Debord's concept of
‘integrated show’ as a definition of advanced capitalist society. In doing so,
one shall not consider mass media as neutral instruments, but as systems functional
to contemporary society. It is possible to trace a relationship between the
spectators' attitude and political decision-making at the international level
by analyzing the most relevant news issues that have generated significant
media-led debates, such as the international legislation on human rights and
the evolution of Nato strategies.
Recalling the whole experience of the cold war- in which lie the historic roots
of the Balcan crisis- one can argue that 10 years of war images have prepared
the public to adopt a passive and contemplative view on today's ‘perpetual war’
which is characterised by an uninterrupted series of belligerent actions that
are not only functional but necessary to the present political-economic system.
La crisi balcanica degli anni novanta e i dibattiti che ha stimolato sono stati affrontati dai mezzi di comunicazione di massa utilizzando modalità che rimandano, a mio parere, ad automatismi economico-politici derivanti dalla struttura sociale in cui sono inseriti e funzionali ad essa. Aldilà di alcune aberrazioni tipiche e strutturali delle logiche mass mediatiche, è possibile rilevare segni che possano dire qualcosa intorno allo stato attuale di quella che Guy Debord e i situazionisti definivano la ‘Società dello spettacolo’[1]. Secondo Debord lo spettacolo integrato è la società capitalistica pienamente costituita in cui convergono modalità concentrate e modalità diffuse. Lo spettacolo concentrato – soprattutto dell’Est e di alcuni totalitarismi – esercitava il controllo totale attraverso le sue gerarchie che facevano capo ad un centro unico direttivo che incarnava un contenuto ad alto valore simbolico; nello spettacolo diffuso – dei paesi capitalisti occidentali – l’ideologia era dispersa nelle molteplici merci le quali occupavano e invadevano tutto lo spazio sociale. Lo spettacolo integrato sarebbe l’evoluzione delle due modalità nell’unica ideologia del libero mercato statalmente garantito: l’impressione paranoicizzante di essere guidati da un centro direttivo divenuto occulto si accompagna alla consapevolezza che il potere della società può influenzare la totalità di comportamenti ed oggetti, che lo spettacolo coincide con la realtà stessa e che l’unico statuto riconosciuto è quello mediale. Debord mette in guardia infatti dall’apparente neutralità degli strumenti mass mediatici:
Se lo spettacolo considerato sotto l’aspetto ristretto
dei “mezzi di comunicazione di massa”, che sono la sua manifestazione
superficiale più opprimente, può sembrare invadere la società come una semplice
strumentazione, questa in effetti non è nulla di neutro, ma la strumentazione
stessa che conviene al suo automovimento totale[2].
È interessante perciò
analizzare alcuni ambiti tematici in particolare, che nei dieci anni presi in
considerazione hanno assunto una notevole rilevanza nel generare dibattiti
mediatici: la questione aperta del diritto internazionale umanitario, ad
esempio, o i cambiamenti di strategia della Nato.
Questi dibattiti hanno avuto la funzione di incanalare sia i consensi che i
dissensi rispetto agli interventi Nato, e
hanno contribuito non poco ad assorbire lo sconcerto di fronte ad alcune
notizie che rompevano quelli che Adriano Sofri ha chiamato i “tabù
dell’europeo” dalla fine della seconda guerra mondiale[3]: violenza sulle donne
e paura per lo straniero, si è parlato di tendenze totalitarie, di genocidio e
di pulizia etnica; del ’94 sono il primo intervento Nato e il primo intervento armato aereo massiccio sull’Europa
dopo la seconda guerra mondiale. Soprattutto questi ultimi conferiscono alle
guerre balcaniche una particolare rilevanza storica e una notevole attenzione
mediatica. I tabù che riguardano i diritti umani universali sono invece
costantemente violati dall’andamento delle guerre contemporanee, le quali sono
fondamentalmente guerre civili e tendono alla guerra totale[4]. Paradossalmente
oggi, pur potendo contare su di un diritto di guerra ben regolamentato, una
definizione precisa dei crimini di guerra e contro l’umanità, tribunali
appositi che dovrebbero impedirne le violazioni, assistiamo più che in passato
a guerre piene di atrocità e ingiustizie, e ‘illegali’.
Questo naturalmente va ricondotto alla crisi dello Stato-Nazione e del ‘principio di territorialità’ che ha avuto un ruolo storico determinante nella tradizione politica occidentale. Il ‘collasso’ delle Nazioni non può che provocare una profonda crisi di tutti gli organismi internazionali. Durante la crisi balcanica abbiamo assistito al fallimento di tutto il diritto internazionale umanitario proprio nel momento in cui maggiormente doveva dimostrare la sua applicabilità. Politicamente infatti l’Onu venne estromessa da qualsiasi decisione significativa e ‘l’ingerenza umanitaria’ stessa degli Stati occidentali si trasformò presto in ‘guerra umanitaria’, che creò non poco imbarazzo ai vertici dell’Onu.
L’esperienza della guerra fredda, la guerra più spettacolare, perfettamente combattuta a livello spettacolare perché ‘mai combattuta’, ha reso possibile la simulabilità di qualsiasi guerra. La simulazione di ogni guerra possibile, a sua volta, ha permesso di legittimare pubblicamente tutte le guerre realmente combattute. La rottura dell’equilibrio fra i due blocchi, vero o presunto, è direttamente responsabile della crisi dello Stato nazionale e dei suoi poteri, soprattutto in campo europeo dove una crescente subordinazione delle diverse Nazioni agli equilibri internazionali spinge a investire in organi sovranazionali ai quali si vorrebbero dare sempre più poteri anche per avere forza contrattuale nei confronti degli Stati Uniti, dove l’evoluzione dei singoli Stati è andata di pari passo con una crescita compatta del federalismo.
Soprattutto per quanto
riguarda i nuovi conflitti risultano evidenti le contraddizioni nate dalle
tendenze imperiali di un mercato evoluto a tal punto da non avere più come
immagine speculare nella dimensione politica lo Stato tradizionale, legato ad
una concezione elastica di ‘territorio’ che permetteva di delineare l’identità
di ‘popolo’. Gli Stati occidentali, soprattutto quelli europei, hanno storicamente
combattuto e rivendicato la propria sovranità nazionale sulla base del
‘principio di territorialità’; infatti i conflitti di un tempo erano prodotti
dall’anarchia statale, e gli Stati stessi ribadivano il loro potere e,
dialetticamente con le altre forze statali, il loro raggio d’azione. Oggi il
conflitto risulta più incontrollabile, gli attori in campo sono molteplici:
gruppi e referenti religiosi, gruppi etnici, mass media, opinione pubblica
interna e opinione pubblica degli Stati sottoposti al raggio di influenza
occidentale, imprese transnazionali, Ong,
reti criminali, truppe regolari, milizie private e mercenarie, ecc.
Che il non-Stato abbia
dichiarato guerra al modello di Stato Occidentale è chiaramente espresso
dall’idea pubblicamente condivisa del ‘terrorismo internazionale’ contro
l’Occidente; nello stesso tempo lo Stato dopo aver ridimensionato al suo stesso
interno la portata politica dei suoi limiti territoriali per esigenze
economiche, si trova a combattere il non-Stato prodotto per non rischiare di
perdere la sua identità economica[5]. Mi sembra verosimile
ritenere che le scelte economiche trasversali alle politiche ideologiche e alle
loro motivazioni siano alla base della trasformazione delle guerre politiche in
guerre ‘civili’.
Lo Stato, sconfitto o comunque profondamente leso nella determinazione della sua nuova identità, ricorre all’ideologia della propria modernità – un certo ‘illuminismo’ che lo renderebbe garante della pace internazionale – alla ricerca di un consenso che avvalli le proprie strategie traballanti. Le guerre attuali nascono anche in seguito ad una territorializzazione forzata di zone a cui non è possibile applicare acriticamente il ‘principio di territorialità’. Tutta la gestione mediatica della crisi balcanica, dai riconoscimenti alle immagini dei profughi, per tutte le parti coinvolte, ha giocato sull’ambigua risonanza emotiva dei concetti confusi di ‘popolo’, ‘territorio’ e ‘identità’ sugli spettatori; ha però anche posto sotto i riflettori il crollo delle Nazioni attraverso il fallimento pubblico della strategia dissuasiva dei riconoscimenti delle autonomie proprio in campo europeo, seppure ai margini di questa tradizione. Ufficialmente si ridusse la complessità applicando retroattivamente il riconoscimento stesso: il conflitto poteva essere descritto come un’aggressione di uno Stato estero – la Serbia – contro uno Stato sovrano – la Croazia, ma Milosević continuò a rivendicare vecchi confini, appellandosi al ‘principio di autodeterminazione dei popoli, e non delle repubbliche’.
Al termine del conflitto, si può rilevare una frammentazione sociale e politica di comunità a cui sono state vendute, con la complicità di tutta la comunità internazionale, ideologie microidentitarie concentrate – l’autonomia nazionale incarnava ideologicamente la soluzione a tutti i problemi – per poter ottenere una risonanza internazionale che si è sostituita di fatto alla legittimità costituzionale interna. Quello che alcuni hanno definito il ‘non-Stato’, con le sue spinte centrifughe contro una autorità centrale, è stato recuperato con la diffusione di queste microideologie frammentate. Nella società dello spettacolo il modello ‘sacrificale’ ha una storia lunga e dolorosa: solo attraverso l’isolamento del singolo, che può accedere alla rappresentanza unicamente in virtù della sua esclusione, viene effettivamente costituito il centro – politico, economico, sociale e decisionale. Ad ogni tentativo di ‘riconquista’ del centro da parte di quanti (singoli gruppi o ‘nazioni’) rifiutano questa esclusione, quando non è possibile stabilire in modo univoco la funzione mediatrice di una gerarchia che istituzionalizza, appunto, la mediazione unica possibile nella forma contemplativa, lo spettacolo ripropone la stessa modalità sacrificale.
Nei Balcani la mediazione internazionale ha pubblicamente fallito su diversi fronti e il sacrificio della Jugoslavia è ormai evidente. L’Onu decise l’invio dei Caschi blu, nel novembre del 1991, secondo strategie che di fatto favorirono la disgregazione della Jugoslavia e il ‘piano di pace per la Bosnia-Erzegovina’ Vance-Owen del gennaio 1993 ebbe effetti disastrosi spingendo gli attori in campo alla guerra di conquista per avere maggiore peso contrattuale.
In Kossovo la comunità internazionale ebbe una grande responsabilità nella scelta degli interlocutori. Rugova, il presidente eletto clandestinamente, improvvisamente venne escluso dal dialogo, e si cominciò ad armare l’Uçk[6], senza coinvolgere nella decisione l’Ue.
La vergogna internazionale fu evidente ad esempio nel ritardo con cui si schierarono gli osservatori dell’Osce; mentre i Kdom statunitensi e britannici continuarono la loro attività indipendente e decisero di non collaborare con la missione dell’Osce; nello stesso tempo Milošević dimostrava la farsa degli osservatori esterni, cambiando tutto il suo ‘staff’ e scegliendo personale a lui favorevole.
Se la pace nei Balcani ottenuta con la frammentazione politica dei suoi territori ha simbolicamente ristabilito il credito della comunità internazionale, e formalmente la sua unità, lo spettacolo ‘unitario’ ha manifestato le sue debolezze e le contraddizioni tra le tendenze imperiali e le forme politiche su cui sembrava poggiare. La guerra nei Balcani ha infatti anche palesato la problematicità della compartecipazione alla ‘guerra giusta’. L’impossibilità per gli Stati Uniti e le altre potenze europee di progettare strategie comuni consegnò «agli Usa l’80% della responsabilità nell’individuazione e distruzione degli obiettivi»[7]; Wesley Clark, quando era ancora comandante in capo delle truppe Nato, a Milano, diede anche «incidentalmente conferma di una maggiore efficacia degli attacchi diretti su bersagli civili»[8]. Le difficoltà gestionali dovute alla presenza di più attori nel fronte dell’Alleanza rendono poco probabile allo stato attuale un ulteriore intervento Nato dopo la sua ‘prima volta’. Lo spettacolo europeo, anche grazie alle dinamiche e agli effetti di una guerra al suo interno, è diventato un potere ‘al seguito’ di uno spettacolo, quello americano, che ha bisogno in questo momento di riconfermare la sua potenza[9]. La sottomissione dell’Europa era di particolare importanza per il dialogo con l’Est, e allo stesso tempo i Balcani hanno funzionato da agenti demoralizzanti introiettando lo stato di minorità nei confronti dell’amico americano. L’auto-legittimazione della Nato ha depauperato soprattutto se stessa vincolando il patto alle decisioni dello Stato più forte. Ha depauperato inoltre l’immagine del potere dell’Onu, che non ha mai avuto altro che la sua immagine per l’esercizio di qualsiasi forma di potere. Ma la comunità internazionale avviò precedentemente il processo di ingerenza provocando il collasso economico della Federazione Jugoslava. Il 5 novembre 1990 la Camera e il Senato degli Stati Uniti decisero il taglio degli aiuti e dei crediti alla Jugoslavia entro sei mesi. A questa decisione seguirono sanzioni economiche da parte della Comunità Europea e la risoluzione 757 dell’Onu.
Il fallimento della strategia internazionale durante i conflitti induce al sospetto che lo scopo fosse proprio quello riscontrato al ‘termine’ della guerra: la frammentazione territoriale di un luogo importante economicamente per il commercio illegale, e la dissoluzione politica di una Federazione senza più un ruolo politico strategico negli equilibri internazionali dopo la fine della guerra fredda.
La risoluzione dei conflitti in questo modo è sia apparente che reale: i Balcani rimarranno costituzionalmente instabili, nonostante la pace formale che ha permesso alla Nato e alla comunità internazionale di riconquistare un’immagine comunque soddisfacente. Seppure l’emergere di nuovi conflitti attesti il fallimento della pace spettacolare, non risulta possibile mediaticamente tracciare una linea di continuità tra i nuovi e i vecchi conflitti formalmente pacificati dallo spettacolo di una pace sempre sfuggente. L’effetto che si ottiene è la permanenza delle condizioni di fatto, la quale genera una pace reale, cioè l’impossibilità di ridiscutere le cause, attraverso lo scopo raggiunto di una fedeltà assoluta e sempre mutevole ad atti politici che si susseguono senza più nemmeno il travestimento di un’ideologia coerente. Il modello ‘sacrificale’ viene perciò riproposto come imposto dagli eventi. Ma il terrorismo stesso oggi può travestirsi ideologicamente come opposizione allo spettacolo dominante, e presentarsi come tale, perché ha assorbito e mediato una modalità di partecipazione che sacralizza il centro e tende a riappropriarsene attraverso una lotta mistica e un sacrificio reale. Non è un caso che il mito religioso venga oggi riproposto a rappresentare simbolicamente una conquista altrettanto mitica, e non è strano che il mondo occidentale possa permettersi di scandalizzarsi di fronte a questo tentativo, soprattutto quando il sacrificio non viene presentato come simbolico – la croce cristiana –, ma si impone come reale e ha effetti così devastanti. È attraverso questo ‘scandalo’ che il mito del benessere, ovvero la versione laicizzata dalla ‘borghesia’ dell’accesso alla soddisfazione attraverso il sacrificio dei desideri reali e l’esclusione dal centro, potrebbe trovare il modo di rafforzarsi, dopo un periodo di grossa turbolenza, nel mettersi a confronto con un ‘nemico’ povero e il suo sacrificio ‘totale’.
L’immagine delle Twin Towers in fiamme e poi crollate è il paradosso dello spettacolo stesso: questo, abituato a rincorrere i pericoli lanciando anatemi – e non solo – per attestarne la lontananza e per ribadire il proprio benessere democratico, risulta oggi un po’ più confuso e prova a ricacciare fuori dai confini il ‘nemico’ terroristico dopo averlo definito ‘dappertutto’. L’immagine di un nemico reale ‘interno’ e ‘internazionalizzato’ entra in contraddizione con l’intenzione di immaginarselo lontano, nonostante lo si sia visto soprattutto in tv esattamente come tutte le altre volte. L’immagine non è mai stata così tanto spettacolare eppure anti-spettacolare. Sembra quasi che improvvisamente ci si sia scontrati con l’equivalenza tra realtà e immagine troppo a lungo rimossa. Ma nello spettacolo sempre l’immagine finisce per diventare reale perché causa di un comportamento reale, e la realtà finisce per diventare immagine, ed immagine necessariamente falsificata dato che, secondo Debord, l’immagine è l’equivalente astratto del rapporto che la merce come valore di scambio istituisce tra gli uomini. In quest’ottica e allo stesso modo nella gestione mediatica della crisi balcanica abbiamo assistito a questa ambigua realtà: i filtri di notiziabilità[10] hanno decretato gli eventi da esporre e mediatizzare e viceversa gli eventi si sono creati per diventare notizie.
Si potrebbe dire per assurdo che proprio l’estrema visibilità delle guerre balcaniche le rende più sconosciute: il problema della verità o falsità delle notizie è semplicemente diventato ‘irrilevante’ per il cortocircuito tra sistema mass mediatico e opinione pubblica e autoreferenzialità tra mass media. La maggior parte delle notizie infatti sul conflitto balcanico sono state fornite da società di pubbliche relazioni, soprattutto americane, con il ruolo di fornire una buona immagine internazionale dello Stato loro cliente. Dai registri del Dipartimento di Giustizia americano è possibile scoprire che durante la guerra furono contattate diverse agenzie: ad esempio alla Ruder Finn sono arrivati milioni di dollari all’anno dalla Croazia, dalla Bosnia e dalla “non esistente Repubblica di Kossovo”[11]. Alla Serbia invece, in seguito alle sanzioni economiche delle Nazioni Unite, era impedito di affidarsi a società di pubbliche relazioni. In un’intervista dell’aprile 1993 James Harff, direttore della Ruder Finn, parlando della diffusione della notizia dell’esistenza di campi di concentramento serbi ammise:
Il nostro lavoro non è quello di verificare le
informazioni. Non siamo attrezzati per farlo. Il nostro lavoro è di accelerare
la circolazione delle informazioni a noi favorevoli, mirando ad obiettivi
accuratamente selezionati. Noi non confermammo l’esistenza dei campi di
sterminio in Bosnia, ci limitammo a far circolare la notizia che Newsday affermava questo…[12].
Per quanto riguarda l’intervento in Kossovo, mediaticamente il ‘massacro di Raćak’ ha significato un po’ quello che per la Bosnia sono state le due bombe al mercato di Sarajevo, ed è quindi emblematico per comprendere le dinamiche tra media e opinione pubblica nell’ottica della propaganda. Il massacro di Raćak servì a concentrare l’attenzione mediatica di nuovo sui Balcani permettendo all’Uçk di «rimontare abbondantemente quel poco di sfavore internazionale»[13] oscurando i propri massacri di minore entità e gli agguati a poliziotti e civili serbi.
Durante la notte precedente l’arrivo degli osservatori Osce e dei giornalisti a Raćak il paese era tornato sotto il controllo della guerriglia. Vari osservatori internazionali avrebbero alluso a possibili ‘manomissioni’ da parte dell’Uçk. La guerra in Bosnia aveva insegnato che «le denunce di efferatezze sui corpi, segni di torture, decapitazioni, sono una diffusa arma di propaganda»[14]. Senza entrare nel merito della ‘verità’ o ‘falsità’ delle notizie o delle allusioni, dei diversi dibattiti, scandali o ‘revisionismi’ vari, si può notare come ormai nessun conflitto riuscirebbe ad ottenere una risonanza internazionale se ad esso non venissero collegate gravi violazioni del diritto internazionale umanitario.
È in questo ambito che si misura la portata tragica, e quindi non solo demagogica, propagandistica, teorica o filosofica, dell’irrilevanza della questione ‘verità’ in ambito politico: la falsificazione mass mediatica ha davvero effetti devastanti. Ed è su questi effetti che viene giustificata pubblicamente la ‘guerra umanitaria’. La ‘guerra umanitaria’ è resa possibile dalla ‘guerra selettiva’ o ‘guerra intelligente’ – un patrimonio informativo e tecnologico che si vorrebbe ad uso esclusivo di alcuni Stati occidentali e che permetterebbe di governare costi e ricadute, e di amministrare le perdite proprie e altrui – e dalla ‘guerra post-eroica’, una guerra che può pubblicamente essere sostenuta solo garantendo l’assoluta mancanza di perdite umane – connazionali naturalmente.
L’intervento Nato in Kossovo da alcuni è stato dichiarato il proseguimento o l’inizio di una guerra ‘virtuale’. ‘Virtuale’ perché molto ‘facile’, per la disparità delle forze e delle tecnologie dispiegate. Clinton dichiarò subito che non intendeva mettere le sue truppe nel Kossovo per combattere una guerra. Pubblicamente si ammise e nello stesso tempo si volle credere e far credere che non si trattava quindi di una guerra ‘reale’, ‘tradizionale’. Dopo tre notti di bombardamenti ‘reali’, la guerra ‘virtuale’ era stata praticamente vinta. Gli obiettivi, i bersagli ‘adeguati’ erano stati raggiunti. Milošević non si arrendeva.
Fin dall’inizio la versione ufficiale che interpretava la situazione nei Balcani presentava la guerra come un’irrazionale esplosione di pulsioni ancestrali. Si trattava invece di un riassetto territoriale successivo alla crisi apertasi dopo la morte di Tito e ulteriormente amplificata con il crollo di Mosca; essa venne così resa ingestibile prima dall’esclusione della mediazione russa e poi dall’uso ambiguo di tale mediazione.
Tra quelli che hanno lavorato sul campo, in molti erano convinti invece che odio razziale e vendette etniche irrazionali fossero le cause – e non gli effetti, i mascheramenti ideologici – delle violenze e dei soprusi quotidianamente visti e ascoltati. Del resto l’Europa fatica ancora a spiegare a se stessa le dinamiche sociali che hanno visto esplodere la violenza ‘gratuita’ e irrazionale della seconda guerra mondiale. La ‘guerra santa e umanitaria’ nasce e si sviluppa su questa cecità e sull’ipocrisia della giustificazione attraverso l’immagine della barbarie e della altrui bestialità. Gli interventi aerei, tra l’altro, sia per quanto riguarda la situazione in Bosnia che nel Kossovo, non raggiungono mai, di fatto, l’obiettivo proposto di ‘difendere i civili dagli attacchi’. I ‘danni collaterali’ dell’intervento Nato in Kossovo ammontano a più di 400 morti in due mesi. Il fatto che truppe serbe continuassero i massacri, che la società civile si ricompattasse intorno a Milošević, e che si accelerasse l’esodo forzato dei kossovari, non è stato letto come il fallimento degli obiettivi militari dell’azione a protezione dei civili, ma come ragione per la prosecuzione dei bombardamenti. Gli obiettivi reali raggiunti e forse gli unici raggiungibili con un attacco aereo sono la minaccia e la punizione, due azioni che giocano un ruolo centrale nella definizione simbolica della posizione dominante. Il gusto della contemplazione delle immagini proposte dallo spettacolo cresce probabilmente su questo riferimento simbolico, vacillante con la constatazione che la guerra non poteva essere poi così rapida e indolore.
Le illusioni delle ‘guerre intelligenti’ sono presto smascherate anche di fronte al grande pubblico, in modo altrettanto spettacolare: è sufficiente elencare qualche dato più o meno realistico anticipato da titoli roboanti e sensazionali dei quotidiani ‘di sinistra’. Diversi sono stati i modi di definire le guerre balcaniche di fine novecento: ‘guerre di globalizzazione’, ‘guerra costituente’ in riferimento alle strategie Nato e Onu, ‘guerra giusta’, oppure ‘guerra umanitaria’ e ‘tecnologica’. Ogni modo di parlare rivela un’intenzionalità, un’interpretazione e un pubblico a cui ci si rivolge ben precisi, e si inserisce perfettamente nelle logiche di produzione e distribuzione delle notizie che guidano il sistema mass mediatico. A questo riguardo è interessante notare come aver diviso il pubblico nelle due schiere pro o contro l’intervento Nato sia servito anche a renderlo invece omogeneamente d’accordo rispetto alla positività delle sanzioni economiche che di fatto hanno preparato la dissoluzione della Jugoslavia.
Le immagini di guerra, proiettate per dieci anni sui teleschermi, hanno rivelato al grande pubblico i primi effetti della fine della guerra fredda, e cioè la riformulazione del Patto Atlantico in chiave espansiva contro i pericoli derivanti dal Sud, e l’inversione di tendenza delle politiche statali rispetto al ‘dividendo di pace’. La conquista dei margini dello spettacolo era questione di primo piano anche durante la guerra fredda che di fatto combatteva le sue battaglie reali alle estremità dei due blocchi per la conquista dei terzi esclusi. La pubblicità del disarmo attraverso gli accordi ufficiali tra Usa e Urss avevano avuto come effetto, non solo di tranquillizzare gli spettatori, ma anche di escludere i paesi terzi dall’accesso alla scena pubblica, impedendo loro di entrare a far parte del ‘club del nucleare’ che di fatto garantiva il peso contrattuale nelle dispute spettacolari. Dai dati analizzati è emerso che il famoso ‘dividendo di pace’ si costruiva praticamente non solo dalla diminuzione degli investimenti in armamenti da parte dei paesi dei due blocchi, ma anche da un guadagno superiore, rispetto agli anni ‘caldi’ della guerra fredda, ottenuto dalla vendita di armi convenzionali soprattutto verso i paesi del Medioriente, vendita che ha permesso al mercato delle armi di non dover limitare e riconvertire la produzione.
Il 1991 è stato l’anno in cui la comunità mondiale ha prodotto uno sforzo senza precedenti nell’elaborazione di progetti contro la proliferazione e il commercio di armi nel mondo, soprattutto nei due incontri di Londra e Parigi dei cinque membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. ‘Pressioni non dichiarate’ hanno spinto invece l’Assemblea dell’Onu in direzione opposta – come quando fu costretta a rendere volontarie e non obbligatorie da parte degli Stati membri le informazioni sulle esportazioni di armi, nonostante la decisione di creare un Registro mondiale dei trasferimenti delle armi fosse stata presa all’unanimità. Di certo affrontare il problema del traffico di armi pubblicamente mette al riparo da eventuali polemiche intorno all’operato effettivo al riguardo: contemporaneamente agli incontri sopra menzionati l’amministrazione americana decideva di estendere al commercio delle armi i meccanismi di garanzie bancarie sull’export-import create a protezione di altri settori dell’industria statunitense, di utilizzare le sue forze armate come sponsor per le vendite di materiale bellico all’estero e di promuovere nuovi trasferimenti di armi per 19 miliardi di dollari a otto paesi del Medioriente.
Il mercato delle armi influenza certamente le politiche degli Stati e ne è influenzato più di ogni altro settore dato che i principali acquirenti sono proprio gli Stati e le loro forze armate. Le guerre, fredde o calde che siano, costituiscono un sospiro di sollievo per le imprese produttrici di armi. L’embargo di armi a Serbia, Croazia e Bosnia, approvato nel 1991, non ha naturalmente avuto l’effetto di bloccare il flusso di armi verso i tre paesi, ha piuttosto reso difficilmente analizzabili i dati sulle esportazioni di armi che cominciarono a circolare in un regime di piena illegalità il quale, tra l’altro, ha favorito l’ingresso nei commerci della grande criminalità organizzata[15]. È certo inoltre che la guerra in Kossovo ha incrementato il mercato delle armi e ha incentivato il riarmo di tutto il mondo. Nei dieci anni presi in considerazione in questo settore si è assistito alla progressiva concentrazione societaria delle imprese in gruppi transnazionali. La rivoluzione negli affari militari ottenuta con la ricerca, il sostegno e l’intervento delle agenzie di intelligence ha riportato un sicuro vantaggio strategico, se non sul piano politico, di sicuro su quello economico-militare[16]. La guerra del Golfo e l’intervento in Kossovo sono state due esperienze di “prova” di una guerra aerea in fase di perfezionamento che siglerebbe un nuovo Warfare.
Uno stretto legame unisce l’evoluzione del mercato delle armi, il passaggio dalla guerra fredda alle guerre civili e totali di oggi e il travestimento ideologico mass mediatico. Simboliche a questo riguardo sono le dichiarazioni pubbliche rispetto al cosiddetto ‘scudo stellare antimissile’: mediaticamente una prima volta se ne è parlato nel 1984, in piena guerra fredda; poi alla vigilia dell’intervento Nato in Kossovo, sollecitati dalla preoccupazione rispetto all’aumento delle esportazioni di armi verso alcuni paesi mediorientali e asiatici; infine venne riproposto, e approvato, in seguito ai ‘fatti dell’11 Settembre’. Dopo aver chiesto agli spettatori di essere contenti per i notevoli sforzi in campo internazionale per la ‘pace’ di cui alcuni paesi sarebbero garanti, si chiede loro oggi di fidarsi delle giustificazioni pubbliche del riarmo. Gli Usa hanno notificato infatti a Mosca, il 15 dicembre 2001, che intendono uscire dal Trattato Abm, stipulato nel 1972 da Usa e Urss. In questo modo, paradossalmente, la Russia potrebbe riprendere lo spiegamento dei missili balistici a testata multipla non neutralizzabile da alcuno ‘scudo’. Come era assurda e illogica negli anni settanta la pubblicità sui rifugi antiatomici, così oggi l’idea di uno ‘scudo’ è indice dell’atteggiamento dello spettacolo che cerca di trarre i suoi guadagni dal ‘nemico’ terroristico mentre prova a ricacciarlo fuori dai confini. Lo spettacolo oggi è alle prese, come del resto è sempre stato, con il problema dei confini e della necessità di estensione del mercato che lo domina. Le sue modalità sono senz’altro differenti da quelle della guerra nei Balcani, ma è stata proprio la mediatizzazione della crisi balcanica a rendere manifesta agli occhi di tutti la situazione di anarchia territoriale nella quale ci troviamo.
Fino alla fine della
guerra fredda era possibile rintracciare nello spettacolo comportamenti concentrati
che si basavano sul dispiegamento di forze ‘occulte’; mi riferisco
principalmente al ruolo dei servizi segreti o alle decisioni non pubblicamente
espresse, soprattutto nell’ambito della politica internazionale. Le guerre
realmente combattute erano perciò fondamentalmente diverse dallo spettacolo della guerra fredda che si
pensava di combattere. I tanti films di spionaggio attestano retroattivamente
la consapevolezza pubblica rispetto a questi movimenti sotterranei.
La fine della guerra
fredda ha smascherato il segreto
generalizzato e lo ha smascherato in un modo particolare: sebbene abbia
rivelato solo parte del segreto, ha
contemporaneamente indotto una percezione paranoicizzante del sistema. Il
realismo politico – o meglio economico – può paradossalmente trarre i suoi
vantaggi da questa percezione difendendosi dagli attacchi proprio con la
estrema visibilità dei suoi atti. In questa lotta in cui viene palesato il segreto lo spettacolo ne esce senza troppe ossa
rotte: la ‘visibilità’ è sua arma costituzionale vincente fino a che rimarrà
contemplata. La fine della guerra fredda ha significato mediaticamente la
possibilità di palesare informazioni e movimenti strategici prima considerati
ambito esclusivo del segreto degli Stati. La guerra nei Balcani è stata per
assurdo ‘fin troppo vista’, le notizie al riguardo erano tante e la
falsificazione più sottile perché la verosimiglianza era garantita da questa
estrema visibilità, non palesemente limitata come è successo invece per la
Guerra del Golfo, dove l’informazione si è limitata a tenersi ‘accesa’,
vincolata necessariamente all’unica fonte che forniva notizie.
La società, che già
secondo Debord non pretendeva più di essere amata e si accontentava di essere
temuta, può contare ora sulla constatazione per cui tutti accettano che non
esista più margine di intervento. Si continua a sorvegliare segretamente ciò
che è segreto come necessità logica di mediazione, astrazione, scambio,
controllo tra l’essere e l’apparire. Ma la coincidenza tra essere e apparire
cancella il segreto in quanto tale.
Il movimento antidialettico avrebbe così ottenuto la perfetta stasi nell’unica
realtà dello spettacolo. Sarebbe così
possibile accorgersi dell’immobilità e del segreto
da qualsiasi affermazione intorno allo spettacolo.
Concentrando la sua attenzione sul recupero,
lo spettacolo non solo non ha più
bisogno di mentire ma può anche evitare di omettere tanto è grande la
confusione sui fatti.
L’inflazione di
notizie e la loro velocità rendono le guerre balcaniche fondamentalmente
differenti dall’attuale guerra al terrorismo internazionale e dall’intervento
statunitense in Afganistan. In effetti qui si lotta, come del resto era stato
annunciato, spettacolarizzando sempre
meno gli attacchi, come annunciato, e deviando l’attenzione verso altri
contesti, ad esempio sulla ‘barbarie’ israeliano-palestinese. Tuttavia lo spettacolo non riesce con ciò a
conseguire il desiderato effetto della ‘distanza di sicurezza’ che poteva
ottenere nei Balcani che pure erano così vicini.
Sicuramente le
sconfitte strategiche della crisi balcanica sono sconfitte pubbliche, e la
‘visibilità’ è stata un’arma introiettata dai ‘nemici’ fin da allora. Il
tributo pagato al pubblico occidentale, di non voler rischiare perdite umane
connazionali, per quanto riguarda i Balcani, giocò infatti a favore del leader
serbo, il cui obiettivo principale forse era fin dall’inizio far scattare la
‘bomba umana’, la ‘bomba profughi’, riuscendo in tal modo di fatto anche a
prolungare la guerra e a calcolarne i rischi. Oggi l’uso paradossale che della visibilità compie il ‘terrorismo
internazionale’ se da un lato ha giustificato l’atto di forza statunitense,
dall’altro costringe lo spettacolo a
ricorrere nuovamente al segreto e a
manifestare incertezze e debolezze che lo riguardano direttamente.
Lo spettacolo si presenta come una
successione di istanti qualitativamente identici, cioè di immagini, temporalmente puntuali ed indifferenziate perché senza uso o modificazione possibile. In questo
senso per l’immagine è impossibile
costituzionalmente rendere la simultaneità. Logicamente – ma il processo ha una
genesi economica nella ricerca di un’economia perfettamente pianificata,
concentrata in un sol punto, dove la produzione e il consumo siano istantanei –
viene ricercata l’identità tra A e non-A, attuabile attraverso la
risignificazione delle immagini precedentemente trasmesse, possibile per
l’atemporalità dell’immagine. L’immagine
diventa oggetto d’uso immediatamente
socializzato, e unico medium sociale; la sua diffusione promuove un’adesione generale al presente e crea le
premesse logiche per un abbandono della storia, la quale si presenta ormai come
una successione ininterrotta e non ragionata di immagini.
Il passaggio ‘storico’
dallo spettacolo del disarmo a quello
dell’inevitabilità del riarmo è stato mediato e preparato da dieci anni di immagini di guerra nei Balcani. Questa
lunga guerra è stata preludio e prova, preparazione e attivazione per una
‘guerra perpetua’, o, meglio, per uno sguardo contemplativo sulla guerra
perpetua, fatta di innumerevoli e ininterrotti atti di guerra, violenza
poliziesca o interventi ‘pacificanti’, se così vogliamo intenderli. Questi atti
sono presupposti dalla natura stessa del sistema spettacolare; sono inoltre sempre più palesemente operanti e
accettati come necessari anche grazie alla dissoluzione della Jugoslavia. I
Balcani infatti hanno costituito il terreno di sperimentazione dell’offensiva
strategica tecnicamente perfezionata dallo spettacolo:
la frammentazione – politica, economica, sociale, mediatica – di qualsiasi
potenziale nemico ed oppositore. In questo modo lo spettacolo fa in modo che il nemico venga diffuso con lo scopo di recuperarlo
nel tempo con i suoi metodi, accettati da tutti perché ‘imposti’ come
inevitabili.
Bibliografia
AA. VV. 1999 |
La Nato nei
Balcani,
Editori Riuniti, Roma. La prima parte del libro è un’ampia selezione del
volume Nato in the Balkans, a cura
di S. Flounders e prodotto da International Action Center, apparso negli
Stati Uniti alla fine del 1998. La seconda parte del libro, a cura
dell’edizione italiana, è un’appendice che offre una documentazione sulla
questione del Kosovo. |
Badie, B. 1995 |
La fin des territoires. Essai sur le désordre
international et sur l’utilité sociale du respect,
Fayard, Paris [trad. it. La fine dei territori.
Saggio sul disordine internazionale e sull’utilità sociale del rispetto, Asterios Editore,
Trieste 1996]. |
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del consenso, ovvero la politica dei mass media, Marco Tropea Editore,
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sulla società dello spettacolo, SugarCo, Milano 1990]. |
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Éditions Champ Libre, Paris [trad. it. La società
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dovrebbero sapere, Edizione italiana a cura di Contrasto e
Internazionale, Singapore 1999]. |
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L’Italia in guerra. Perché attacchiamo la Jugoslavia. Milošević visto da
vicino. La Russia umiliata dalla Nato, I Quaderni
speciali di Limes. rivista italiana di geopolitica, Supplemento al
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Marzo Magno, A., a cura di 2001 |
La guerra
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Il Saggiatore, Milano. |
Mortellaro, I. 1999 |
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della guerra. La Nato verso il XXI secolo, Manifestolibri, Roma. |
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Timothy McVeigh, Shredding the Bill of Rights, The New Theocrats, Gore Vidal, West Point [trad. it. La fine
della libertà. Verso un nuovo totalitarismo? Fazi Editore, Roma 2001]. |
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sociali dei media, Edizione Strumenti Bompiani, Milano. |
* Questo articolo presenta sinteticamente alcuni risultati della mia tesi intitolata La gestione mediatico-spettacolare delle guerre dell’ultimo decennio, discussa a luglio del 2002 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Urbino. La tesi si proponeva di fornire una lettura il più possibile unitaria e coerente di alcuni avvenimenti mass mediatici alla luce dei contributi di Guy Debord e di altri situazionisti nell’interpretazione della società contemporanea. Cfr. anche la nota successiva.
[1] Si può arrivare a comprendere il concetto di spettacolo dalle pubblicazioni dell’Internationale Situationniste, fondata ufficialmente il 28 luglio 1957 a Cosio d’Arroscia (Imperia). Un volume raccoglie in traduzione italiana i dodici numeri della rivista Internationale Situationniste: I. De Caria e R. D’Este, a cura di (1994). La definizione più accurata del concetto si spettacolo emerge però dalla lettura di G. Debord (1971), a cui farò principalmente riferimento in questo lavoro.
[2] G. Debord (1971), p. 93.
[3]
A. Magno, a cura di, (2001); cfr.
«Prefazione».
[4] Secondo l’Undp, Human Development Report1994, [Oxford University Press, trad. it. Rapporto 1994 su Lo Sviluppo umano. Nuove sicurezze, Rosenberg & Sellier, Torino 1995, p.57; cit. in I. Mortellaro (1999), p. 44] all’inizio del secolo il 90% dei decessi di guerra riguardava militari, oggi il 90% riguarda civili.
[5] G. Vidal (2001), p. 25 e seguenti. Vidal riporta l’elenco compilato dalla Federation of american Scientists degli interventi statunitensi dal dopoguerra al 1999; nelle svariate centinaia di operazioni militari indicate gli Usa vengono sempre indicati come i primi ad attaccare senza aver mai subito ‘aggressione’.
[6] Le modalità con cui lo si fece meriterebbero un’analisi a parte: il coivolgimento di Tirana per liberarsi delle armi sparse sottratte alle caserme dalla scomparsa dell’esercito albanese; la guerra privata tra Berisha e i socialisti vincenti a Tirana e altro ancora.
[7] I. Mortellaro (1999), p. 67.
[8] Ivi.
[9] Sembra farlo ristabilendo la sua identità attraverso il riconoscimento dei suoi confini; la politica difensiva sembra abbandonare le modalità estensive spettacolari.
[10] Cfr. al riguardo il «modello della propaganda» descritto da Chomsky, N. (1988).
[11] Il sostegno finanziario naturalmente veniva dall’estero. Secondo il Washington Post del 2 febbraio 1996 la Saudi Arabia ha dato al regime di Sarajevo un bilione di dollari dal 1993 al 1996. Cfr. B. Lituchy, «I media e la guerra civile jugoslava», in AA.VV. (1999). La Saudi Arabia è sempre stata al centro della questione balcanica per il suo coinvolgimento nel traffico di armi che aveva nei Balcani uno snodo significativo. Al riguardo cfr. M. Gambino e L. Grimaldi, (1995).
[12] S. Flounders, «La tragedia della Bosnia: il ruolo sconosciuto del Pentagono», in AA.VV. (1999). La Ruder Finn è la principale responsabile per la diffusione delle storie di stupri di massa commessi da serbi nell’autunno 1992. Il 13 dicembre 1992 il New York Times riporta che cinquantamila donne croate e musulmane furono violentate e che questa era la politica ufficiale dei serbi. Nel gennaio 1993 il rapporto Warburton, autorizzato dalla Comunità europea, stimò in ventimila il numero di donne musulmane violentate dai serbi. Nessun ascolto fu dato a Simone Weil, membro dissenziente del gruppo investigativo e ex ministro francese e presidente del parlamento europeo, il quale rivelò che questa stima fosse basata sull’interrogatorio di quattro vittime, due uomini e due donne.
[13] R Marozzo della Rocca, «La via verso la guerra», in Limes (aprile 1999), p. 24.
[14] Cfr. ivi.
[15] I Balcani hanno sempre costituito un importante snodo nel traffico – soprattutto illegale – di armi, in particolare modo verso il Medioriente interessato, dopo il crollo del blocco sovietico, ad acquistare a basso costo tutte le armi contenute negli arsenali dell’Armata Rossa.
[16] Cfr. M. Dinucci, (1999).