RECENSIONE
A: Franca D’Agostini, Paradossi, Carocci, 2009, pp. 208.
di Adalberto Coltelluccio
È possibile sostenere che la contraddizione esista? È questo l’interrogativo
di fondo dell’interessante libro di F. D’Agostini, Paradossi, edito da
Carocci (2009). L’autrice non è nuova a queste problematiche
logico-filosofiche, avendo già trattato di paradossi, antinomie, dilemmi e
contraddizione in diversi suoi testi, fra i quali
ricordiamo soprattutto il notevole Disavventure della verità (Torino
Tuttavia, la novità della sua ultima fatica va
colta, a mio avviso, nell’esplicita presa di posizione a favore dell’ammissione
di contraddizioni ineliminabili. Nei precedenti lavori D’Agostini non
era giunta a sostenere in modo così netto l’intoglibilità delle
contraddizioni, mentre ora sembra che, a partire dalla presa d’atto
dell’insolubilità di principio di alcuni tipi di paradossi (in particolare,
quelli semantici e i cosiddetti soriti),
non si possa fare a meno di asserire che almeno qualche contraddizione esiste.
In ogni caso, il numero delle contraddizioni ammesse è ben limitato. Pertanto,
i cosiddetti «rivali del Principio di Non Contraddizione», o PNC (per
riprendere l’espressione di un altro interessante libro sull’argomento, Teorie
dell’assurdo, scritto da uno dei più importanti studiosi italiani di
contraddizioni, Francesco Berto, e pubblicato anche questo da Carocci nel
2006), devono contenere la loro esultanza, in quanto, se da un lato ci troviamo
di fronte a una posizione teorica apertamente favorevole all’ammissione di
contraddizioni, dall’altro il tipo di contraddizione ammesso si riduce in
realtà a uno solo: i paradossi, appunto.
Mi limito a segnalare, tra i molti aspetti
interessanti e istruttivi del libro di D’Agostini, solo tre punti per una
riflessione:
Il primo punto è estremamente interessante,
perché esplora in modo nuovo la natura dei paradossi legandola indissolubilmente
alla contraddizione (e, dunque, a una effettiva trasgressione
del PNC); e perché mette in luce il tratto di ineliminabilità e di insolubilità
della contraddizione in esso contenuta, prendendo atto che vi sono
contraddizioni che, in linea di principio, non è possibile toglierle.
D’Agostini conia l’espressione di «contraddizione
resistente» per intendere, appunto, una contraddizione difficile oppure
impossibile da risolvere. Solitamente, in letteratura, il paradosso è stato
definito come «un argomento apparentemente corretto con una conclusione
inaccettabile» (p. 19). D’Agostini propone una spiegazione del paradosso che ha
un’affinità con quella proposta anche da Berto, che, dal canto suo, si
ricollega alle ricerche straniere soprattutto di area paraconsistente, e
sostiene che il paradosso, attraverso una certa sequenza di formule, fa
derivare sempre una contraddizione.
La caratteristica essenziale consiste nella struttura
contraddittoria del paradosso e nella sua irriducibilità. Un paradosso,
dice infatti D’Agostini, è un enunciato problematico
in cui «c’è di mezzo una contraddizione» (p. 21). Più precisamente, «è
un argomento, una domanda, una opinione, o anche una
situazione (è indifferente quale sia il punto di partenza), che genera una contraddizione
resistente, di cui non riusciamo a disfarci» (ibid.).
Il paradosso produce una particolare circolarità
in cui è presente una doppia implicazione, attraverso cui ciò che viene posto è
posto se e solo se non è posto: μ ↔ ¬μ. Sono
questi i «paradossi in uno stadio definitivo, che esibiscono un chiaro
fallimento delle riduzioni» (p. 38). Essi sono di due tipi: (1) le antinomie
(ossia i paradossi semantici e i paradossi insiemistici, come
quello di Russell), (2) i soriti, ossia le «situazioni
di confine» (v. il paradosso del “mucchio” o quello del “calvo”).
Più in particolare,
nel primo tipo di paradossi, ad esempio nel mentitore, la contraddizione
resiste in quanto l’enunciato «esprime una tesi auto-contraddittoria»:
precisamente dice di se stesso di esser falso, ma poiché proprio questo dice di
sé, allora è vero. Ma, se è vero, allora, di nuovo, è falso. Così, «se
cerchiamo di liberarci di μ [ossia, se ¬μ], salta di nuovo fuori
μ; se d’altra parte proviamo ad accettare μ, dobbiamo riconoscere che
¬μ» (p. 39). Stesso discorso nel paradosso di Grelling-Nelson e in quello
delle classi di Russell. Anche in questi, infatti, la struttura è contraddittoria,
ed è costituita da un circolo in cui μ → ¬μ, ma
insieme e al tempo stesso ¬μ → μ, ossia, appunto,
μ ↔ ¬μ. Troviamo, cioè, una circolarità in cui
l’enunciato si “auto-intrappola”, per dir così, e da cui non riesce
più a uscire (strada inaccessibile, o senza uscita: aporia).
Nel secondo tipo di paradossi, come i soriti, la contraddizione resiste e «le procedure di
riduzione falliscono», in quanto da una certa tesi α deriviamo β, che
è falso (dato che già sappiamo che è vero ¬β); perciò, cerchiamo di
sbarazzarci di α, asserendo ¬α. A questo punto, però, «salta fuori di
nuovo che se ¬α, allora di nuovo β». E così, «in entrambi i casi
abbiamo un doppio tentativo di riduzione all’assurdo, che fallisce» (ibid.).
In questo tipo di paradossi, dunque, abbiamo una premessa α che genera
come conseguenza una contraddizione, β Ù ¬β;
pertanto, occorre negare α, ma pure negandola otteniamo di nuovo una
contraddizione, in modo tale che sia con α sia con ¬α concludiamo in
una contraddizione: α → (β Ù ¬β), ma anche
¬α → (β Ù ¬β).
Nei confronti dei
paradossi, la bimillenaria storia della filosofia documenta una tenace quanto
improduttiva serie di tentativi di soluzione, che possono rientrare in due
grandi classi di procedure: la dissoluzione e la riduzione. La
prima (denominata anche parametrizzazione) cerca di dissolvere il
paradosso, mostrando che in esso non vi è una vera contraddizione. Essa,
infatti, tenta di “attaccare” direttamente la contraddizione, in modo da
“rifrangerla” (se mi si passa la metafora) in aspetti diversi. Indirizzando i
due enunciati (o corni) congiunti della contraddizione in due ordini diversi
di enunciazione (o predicazione), è chiaro che viene a scomporsi, a rompersi
quella circolarità vista prima, e la contraddizione viene disinnescata.
La seconda procedura
(riduzione) non opera direttamente sulla contraddizione, ma sulla condizione
che la genera, cioè su qualcuna delle premesse. Questa procedura, nota come reductio
ad absurdum, è il modo più consolidato e diffuso di sbarazzarsi delle
contraddizioni: c’è una premessa α da cui si ottiene β Ù ¬β, pertanto α non è valida
e viene confutata, assumendo ¬α.
Sia l’uno che l’altro tipo di soluzioni non
funzionano per i paradossi, e dunque occorre riconoscere che almeno alcune
contraddizioni non si possono eliminare. Esisterebbero, a dire il vero, altre
proposte di soluzione che violano qualche legge logica. Una, in particolare, è
definita “truth value glut” e viola quello che tradizionalmente è
considerato il principium firmissimum, il principio più saldo di
tutti: il PNC. Infatti, ammette che i paradossi sono
sia V che F insieme: «c’è un eccesso (glut) di valori di verità» (p.
143), trasgredendo ciò che non dovrebbe mai essere trasgredito, il PNC
che, nella sua formulazione semantica (seguo la classificazione di
Berto, 2006), vieta che un enunciato possa essere contemporaneamente V e F.
Le soluzioni “gluttiste” sono adottate dalle
logiche paraconsistenti, le quali ammettono contraddizioni vere,
pur senza derivare qualsiasi cosa (trivialismo, o deflagrazione
del sistema). La paraconsistenza presenta una versione debole, che
ammette contraddizioni vere ma non reali, ossia non oggettive; e una
versione forte, o dialeteismo (da di-aletheia, doppio valore di
verità, perché si ammette sia che è vero α sia che è vero ¬α), che
sostiene che le contraddizioni, invece, «ci sono realmente, nel mondo reale»
(p. 152). Questi approcci, soprattutto il secondo, sono stati spesso criticati
proprio per la loro pretesa di poter violare il PNC.
La posizione di D’Agostini consiste nel ritenere che
la contraddizione «c’è», ossia è vera, solo quando è irriducibile. Ora, quando
possiamo affermare che c’è davvero una contraddizione ineliminabile? La risposta di D’Agostini è netta: «c’è un solo caso di
questo tipo, anche se ha forme diverse: i paradossi nel senso stretto del
termine» (p. 188). Non esisterebbero, però, contraddizioni reali.
Altro aspetto interessante del libro riguarda
l’analisi del meccanismo generatore del paradosso, e cioè la diagonalizzazione.
Sebbene qualche altro autore straniero (per es. Keith Simmons, nel suo Universality
and the Liar. An Essay on Truth and the Diagonal Argument, 1993) abbia
individuato tale meccanismo ritenendolo responsabile del paradosso, D’Agostini
rileva con insistenza la sua peculiare prerogativa “paradoxo-gena”
(se mi si passa il termine), di generare cioè i paradossi. Per D’Agostini,
infatti, tre sono le condizioni che possono generare i paradossi: (1) l’autoriferimento,
ossia l’enunciato deve potersi riferire a se stesso in ciò che dice (è la
caratteristica più diffusamente ritenuta, in letteratura, responsabile della
paradossalità); (2) la negazione, ossia «l’enunciato dice di non
avere una certa proprietà (non appartenere, non riferirsi, non essere vero)»
(p. 131); (3) la diagonalizzazione o iterazione, ossia il predicato che
viene attribuito al soggetto dell’enunciato deve poter essere iterato o
ripetuto in modo da autoapplicarsi all’attributo stesso (es.: «‘eterologico’ è,
a sua volta, eterologico?»).
Tutte e tre le condizioni hanno un loro ruolo nei
paradossi, ma, a giudizio di D’Agostini, solo la diagonalizzazione è, oltre che
necessaria, sufficiente a generare il paradosso. Essa è, infatti, quel
fattore che “dà inizio” alla procedura riflessiva che innesca la contraddizione.
La prova che gli altri due fattori possono non essere indispensabili, è data
dal fatto che vi sono enunciati autoreferenziali che non
generano paradossi e, viceversa, vi sono paradossi che non sono
autoreferenziali (per es. quello di Stephen Yablo, v. Paradox without
Self-Reference, 1993). D’altra parte, vi sono paradossi che non fanno uso
della negazione, come il paradosso di Curry.
La prima condizione, cioè l’autoriferimento
(che può essere diretto o indiretto), produce «un ricorso infinito».
Ciò vuol dire che, nel riferirsi a se stesso, l’enunciato provoca una inarrestabile duplicazione di ciò che dice (come in un
gioco di specchi). Riprendendo un esempio squisitamente filosofico dal saggio
della D’Agostini del 2004, se diciamo che l’Io = Io che pensa se stesso, è
chiaro che al primo Io dell’uguaglianza occorre sostituire tutto l’Io che è al
secondo membro, e poi, di nuovo, ad ogni occorrenza sostituire ancora, e così
via in un ricorso infinito. Tuttavia, l’autoriferimento in sé non sempre è
paradossale, ossia non produce necessariamente una contraddizione.
Ciò che non
può mancare è la terza condizione: la diagonalizzazione o iterazione
del predicato. Quale è il suo ruolo? È quello di “far essere” il
paradosso, dando inizio al processo di circolarità che conduce alla
contraddizione, e che auto-intrappola l’enunciato. Ciò su cui D’Agostini
insiste è proprio il fatto che affinché «un paradosso si presenti come tale qualche
funzione di riflessione è necessaria» (p. 136). Da parte mia, mi limito
solo a evidenziare il nesso persino terminologico tra questa operazione
strettamente logica e la dimensione filosofica, in cui le procedure riflessive
sono a dir poco costitutive, essenziali.
Questo aspetto ci conduce alla considerazione
dell’ultimo punto. Malgrado D’Agostini non abbia una posizione teoretica
favorevole alla realtà delle contraddizione, è
però possibile, a mio avviso, ricavare ugualmente argomenti che almeno non
rifiutino in modo pregiudizievole un orientamento dialeteistico. Anzi, almeno un
argomento del libro va in direzione dell’accoglienza di contraddizioni dotate
di una qualche forma di realtà. L’argomento è adoperato da D’Agostini in merito
alla questione se la vaghezza sia uno stato di cose oppure un modo di
conoscere. D’Agostini, in modo originale, sostiene che essa riguardi «entrambe
le cose», e precisamente tanto la definibilità concettuale degli enti, quanto
la loro struttura reale. Questo comporta che «senza linguaggio non c’è
(problema della) vaghezza», certo, ma, anche e al tempo stesso, che «senza le
strutture del mondo e la loro peculiare natura, la vaghezza non avrebbe motivo
di esprimersi» (p. 177). Di conseguenza, «poiché il rapporto tra linguaggio e
mondo è esso stesso un fatto del mondo, la vaghezza è anzitutto un problema
metafisico» (ibid.).
Possiamo tentare di interpretare allo stesso modo il
rapporto tra contraddizione e mondo. Anche ammesso che le contraddizioni siano soltanto
enunciati, credenze, raffigurazioni del mondo e non entità del mondo, è pur
vero che senza strutture reali fatte in modo contraddittorio, la
contraddittorietà «non avrebbe motivo di esprimersi». Seguendo la stessa
argomentazione di D’Agostini, se il mondo non fosse esso stesso
costituito di contraddittorietà, il suo rapporto col linguaggio e col pensiero
potrebbe essere tale da escludere qualsiasi forma di contraddittorietà. Di
conseguenza, essendo il rapporto tra la realtà e il linguaggio che la esprime
(talvolta) attraverso contraddizioni esso stesso un fatto del mondo, la
contraddittorietà non può non essere una modalità in qualche modo reale, un
evento interno al mondo, e dunque una faccenda anche ontologica.
Prima di concludere, vorrei fare un solo rilievo
critico al libro di D’Agostini, tra l’altro anche questo derivabile da
argomentazioni presenti in D’Agostini
Mi sembra che nulla vieti che si possa proporre un
argomento simile anche per il sostenitore della tesi radicale che «tutto è
contraddittorio». Anch’egli, come il nichilista compiuto, per aggirare
l’incontrovertibilità del PNC, giunge a dire che
«neanche questa tesi [che tutto è contraddittorio] è incontraddittoria», ossia
neanche questa tesi viene affermata ad esclusione della tesi opposta (la
tesi, cioè, che tutto sia, invece, non-contraddittorio). In tal modo, esce
completamente dal «sistema-non contraddittorio», e, pur auto-contraddicendosi,
contraddice non solo tutte le possibili asserzioni, ma anche la propria (apparentemente
non-contraddittoria) asserzione.
COLOGNO MONZESE, febbraio 2010
Adalberto Coltelluccio