Aldo Masullo, Filosofia morale, Roma, Editori Riuniti, 2005, pp. 160

 

Il testo che qui si presenta fa parte dell’interessante collana Capire Le filosofie. Si tratta di agili pubblicazioni che, con una impostazione storico-teoretica, guidano il lettore attento agli sviluppi della filosofia a far chiarezza e orientarsi nell’attuale assetto di discipline talora molto complesse o in fase di nuova delineazione. Il volume di Aldo Masullo, corredato di riferimenti storici e di bibliografia, si propone di illustrare una tematica, meditata in molti anni di ricerche e di confronto filosofico creativo, che risulta di grande attualità e rilevanza: dopo la crisi della nozione classica di etica e dello stesso trascendentalismo morale, si pone, soprattutto nel contesto attuale, la questione della legittimità e dello statuto proprio della filosofia morale (p. 11). A tale urgenza si ricollegano la recente ripubblicazione delle Lezioni sull’intersoggettività dello stesso Autore e del volume, edito presso il Melangolo, su Paticità ed indifferenza.

Nella sua riflessione Masullo ha inteso proporre la centralità del tema dell’intersoggettività come fondamento non metafisico dell’antropologia e dell’etica. Infatti, da Fichte sino ad Husserl, il problema dell’intersoggettività e della comunità non ha cessato di sollecitare indagini rilevanti, tanto più significative in quanto la questione del rapporto tra gli uomini è problema di fondo del nostro tempo, lacerato tra il bisogno, spesso inespresso, di manifestare il proprio mondo interiore e l’imperativo, talora fortemente inibente, a non coinvolgersi eccessivamente nel vissuto altrui. Tuttavia, notiamolo subito, la crisi etica e antropologica attuale non è ricondotta alla tesi che le scelte etiche, in quanto personali, sono demandate all’individuo consapevole e responsabile delle sue azioni, quasi che si possa sostenere che sussista una dimensione morale appagante senza una personale consapevolezza. Infatti, non si tratta di proporre, come salvaguardia dall’angoscia del decidere, dei denominatori comuni imposti senza condivisione. Il problema è, piuttosto, liberare se stessi per poter essere capaci di ascoltare quel fondo, talora oscuro o anche senza fondo, che è dentro ciascuno e che, pur personalissimo, non può essere demandato alla semplice dimensione del privato. Infatti, avrebbe poco senso la fondazione molto rarefatta dell’io senza quella relazione io-tu che è stata oggetto di ampia tematizzazione nella filosofia contemporanea. L’ambito della filosofia morale deve essere liberato dalla sottomissione a impostazioni e soluzioni teoretiche o contemplative, rivolte alla negazione o all’attenuazione della problematicità umana: «il “bene” non è un oggetto teoretico ma un orientamento pratico, non un essere da conoscere ma il simbolo di una “buona volontà”, cioè di una volontà di salvezza e, in questa accezione, “verità buona”» (p. 62). La consapevolezza della complessità della dimensione morale e antropologica apparve già nel mondo greco, allorché Eraclito, nelle sue oscure e ardue sentenze, sostenne che l’uomo non può vivere e poi morire, ma continuamente muore e rinasce, sperimenta la vita nella sua complessità e talora trova l’altro e un nuovo rapporto al mondo. La vita è in intrinseco rapportarsi al tempo, che è l’avvertimento di una destabilizzazione continua che si opera nostro malgrado, benché non in termini fatalisti o necessitaristi. Tuttavia, in questa prospettiva «ci si rende ormai chiaramente conto che l’abituale fungere della coscienza, come complesso lavoro di costruzione e utenza d’impalcature logico-simboliche, di strumenti calcolatori e di codici semantici, nasconde ma non sopprime affatto la discontinuità della vita» (p. 80). Infatti, la «paticità» è il fatto originario che non tanto deve essere posto, ma che non può non porsi: essa è nella forma dell’e-sistere.

Insomma, la “crisi” antropologica, che paradossalmente è alla base dell’interrogazione della filosofia morale attuale, non va minimizzata o sottovalutata. Essa va connessa alla dissoluzione di secolari pretese coscienzialiste sempre riproposte e mai risultate appaganti. Tuttavia, l’Autore sostiene che non si può neanche cadere in un superficiale pessimismo, frutto di insincerità, di rassegnazione, di facile omologazione di ciò che è umano a parametri omogenei e impersonali.

Al di là dell’ottimismo e del pessimismo, si tratta, secondo Masullo, di cogliere l’opportunità di alcuni cambiamenti radicali del discorso filosofico attuale, già in parte manifestati paradigmaticamente dall’apertura husserliana al mondo-della-vita. Egli ritiene, tuttavia, che le stesse impostazioni husserliane e heideggeriane non riescano a farci cogliere pienamente il fondo della nostra «paticità», quella problematicità che i filosofi contemporanei, come dimostra Nietzsche, hanno esperito, ma che resta ancora da sondare pienamente. Anche in questo caso, non si tratta di cedere all’irrazionale o a un vitalismo estetizzante o elitario, segno piuttosto di un profondo allontanamento dall’uomo. Bisogna piuttosto porsi in ascolto, sicuramente complesso e rischioso, del mondo delle nostre fontali problematiche e delle nostre intime, impartecipabili emozioni. Queste ultime, annunciate o repentine, rivelano la fallacia di aver enfatizzato e separato dal mondo e dagli altri la nostra identità, il nostro ego.

Non pago di risposte puramente tecniche, ideologiche o metafisiche, l’Autore, che rifugge dal sentimentalismo, sostiene, perciò, che l’uomo deve vivere fino in fondo tutta la propria contraddizione per esistere e guadagnare se stesso, anche come vita e carnalità. Ciò comporta un’attenta riflessione su tematiche che la filosofia ha spesso guardato con un certo sospetto o ha riportato a categorie astratte. È noto, difatti, che ancora nella stagione neoidealistica italiana il problema della morte e del male sono interpretati come problemi spiegabili mediante il ricorso costante alla vita intima dello Spirito, che li avrebbe già eternamente vinti e superati. Tematizzare la propria concretezza umana, la propria carnalità vissuta, le proprie emozioni, l’esperienza del dolore e del morire è smentire ogni concettualizazione apriorista che viene a edulcorare e attenuare, magari tramite il richiamo al sentimento o al silenzio, la questione dell’uomo: essa è, invece, centrale e giustifica lo stesso statuto di legittimità della filosofia morale. Insomma, secondo Masullo, siamo al di là di ogni moralismo e intellettualismo etico e oltre le riproposizioni, più o meno coperte o più o meno abili e aggiornate, dell’etica classica.

Siamo chiamati a vivere, avvertendone la tragicità, il tempo che ci sottrae a noi stessi e il cui avvertimento, intimamente vissuto, apre un problematico squarcio sulla nostra finitudine. Perciò, non è un messaggio disperante quello che si ricava da queste pagine: l’uomo, anche quello contemporaneo, è chiamato a trovare se stesso, a riscoprire l’inscindibile rapporto tra io e tu, tra individuo e comunità (pp. 91 e sgg.). In queste connessioni, talora complesse e aporetiche, si nasconde la salvezza, quasi uno stato laico di grazia, che trascende la passività del lasciarsi vivere, immemori del tempo e senza strategie per la vita. Connettere i propri vissuti, quelli personali e altrui, porta a una vita consapevole e partecipata, alla quale l’Autore si richiama con lucide argomentazioni, convinto che il fondamento dell’umanità dell’uomo, secondo lo stesso insegnamento di Fichte, non sta in un sé isolato, bensì nella comunità. Parliamo qui di una comunità che non è affatto fatta di norme e abitudini condivise, ma che è costitutiva in quanto ambito del rapporto vivo tra gli uomini: l’«amore» è comunitarietà, poiché ogni ego si origina assieme a un tu.

Tale richiamo a un orizzonte non nichilista, che si apre a un amore non egocentrico, è un tema di grande coinvolgimento e può essere di sicuro interesse per gli studiosi dei più diversi orientamenti e per coloro che si interessano delle questioni più attuali attinenti alla filosofia morale. Un facile amoralismo, inteso come non problematizzazione dell’autointerrogazione umana, è estraneo a queste pagine, che consentono di avvertire sempre l’insincerità di risposte al problema umano rivolte a negare o a minimizzare quanto vi è di profondo in noi e tese a ignorare che l’espressione del nostro profondo porta all’altro, inteso non come un tu generico bensì come alterità incarnata, vivente ed emotivamente situata in un mondo comune nel quale i vissuti non sono identici. La soluzione al problema morale, come abbiamo visto, non sta nella chiusura in sé, ma in un’intersoggettività non rarefatta: «Rapportarsi all’altro, avvertendone, pur dietro l’incancellabile maschera di estraneo, il pulsare autentico di altro-io, di un intraneo, è invece lo slancio dell’altruismo (la libertà etica), il puro agire del vincolo comunitario in me, nato uomo sol perché altri mi hanno coinvolto nella loro umanità, anzi vivente da uomo sol perché in comunicazione con altri uomini. Qui il vincolo opera puro, è “senza obbligazione”: non viene avvertito alcun obbligo, non c’è sottomissione a un dovere come verso l’estraneo; piuttosto viene vissuto il senso dell’altro come altro io, l’intraneo che tacitamente chiede di essere riconosciuto, cioè “trattato” come io» (p. 140).

 

Francesco De Carolis