Ricordando Guido Davide Neri
di Amedeo Vigorelli
In occasione della
presentazione dei volumi:
G. D. Neri, Il sensibile, la storia, l’arte. Scritti
1957-2001
Verona, ombre corte 2003
J. Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia, a
cura di A. Pantano,
Milano, Mimesis 2003
Università degli studi,
Milano, 9 dicembre 2003
Vorrei
richiamare alcune date, che incorniciano l’inizio
dell’avventura intellettuale di Guido D. Neri. Sono quelle di pubblicazione di
due libri importanti, apparsi in traduzione italiana nella collana “idee nuove”
di Valentino Bompiani nei primi anni Sessanta (una collana prestigiosa, la cui
copertina era stata disegnata da Bruno Munari, e che è un po’ il simbolo di
quello “scambio del testimone”, tra Antonio Banfi ed Enzo Paci, avvenuto nel
mondo della cultura di sinistra e democratica milanese sul finire degli anni
Cinquanta). Nel 1955 Gerd Brand dà alle stampe il suo studio dei manoscritti
inediti di Husserl su Mondo, io e tempo,
conservati nell’Archivio Husserl di Lovanio. Il volume uscirà nel 1960 nella
traduzione di Enrico Filippini, nella succitata collana, con una introduzione
di Enzo Paci, che rinnova e corregge sostanzialmente la propria precedente
interpretazione dei rapporti tra fenomenologia e esistenzialismo: «i temi più importanti
dell’esistenzialismo – scrive – sono tutti presenti nella fenomenologia. Per
molti aspetti l’esistenzialismo si presenta sempre di più come una particolare
interpretazione di alcune premesse fenomenologiche» e, con particolare riguardo
ai difficili rapporti tra Husserl e Heidegger, aggiunge: «Husserl idealmente
non precede l’esistenzialismo, ma lo supera e lo corregge, rinnovando la
filosofia contemporanea» (E. Paci, «Introduzione» a G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di
Husserl, Milano, Bompiani 1960, pp. 5-7. Nella appendice bibliografica, a
cura dello stesso Paci, che intende documentare il “ritorno a Husserl”
verificatosi in Italia e nel resto del mondo sul finire degli anni Cinquanta,
compare il primo contributo importante di Neri, «La filosofia come ontologia
universale e le obiezioni del relativismo», in Omaggio a Husserl, Milano, Il Saggiatore, 1960). L’altra data è il
1963, anno in cui viene pubblicato a Praga il volume di Karel Kosík Dialettica del concreto, la cui prima parte
era apparsa, per iniziativa di Neri, su aut
aut nel 1960, e che esce nella traduzione integrale di Gianlorenzo Pacini
nella collana “idee nuove” di Bompiani nel 1965. Oltre che un documento caratteristico
di quel tempo, contrassegnato dalle speranze (ben presto deluse) di un incontro
e di una reciproca fecondazione di “marxismo” e “fenomenologia”, il libro di
Kosík (il filosofo marxista ceco, in dialogo con Jan Patočka) era anche una
testimonianza significativa della rilettura fenomenologica di Essere e tempo di Heidegger, che in quegli
stessi anni trovava in Eugen Fink (meglio che in Paci) un interprete sensibile
e consapevole.
È
stato proprio Guido a richiamare, in uno dei suoi ultimi – un po’ diradati –
interventi, l’importanza cruciale di quegli anni. L’occasione gli era fornita
dalla ripubblicazione – che si deve a una felice intuizione di Mauro Carbone –
della introduzione di Paci all’Elogio
della filosofia di Maurice Merleau-Ponty sulla rivista Chiasmi International (2000, n. 2). Neri rievoca appunto gli anni
1955-57, gli ultimi del magistero pavese di Paci, come quelli per lui decisivi:
«Venivo dall’università di Milano, dove intorno a Banfi e Dal Pra si stava coagulando
un gruppo di allievi che sarebbero poi stati i primi allievi milanesi dello
stesso Paci» (G. D. Neri, «Paci e Merleau-Ponty. Una testimonianza e qualche
riflessione», in Il sensibile, la storia,
l’arte. Scritti 1957-2001 cit., p. 165). Neri parla dell’effetto
sconvolgente che, per una generazione già formatasi intorno «alla lettura di Idee I» e alla «notevole ma ormai stagionata
interpretazione banfiana» di Husserl, ebbe l’impatto con la Crisi delle scienze europee, posta viceversa
al centro dell’interesse fenomenologico da Paci, nella scia di Merleau-Ponty,
il cui punto di vista veniva da lui «radicalizzato», al segno di considerare
ormai Husserl «più esistenzialista di Heidegger» (ivi, p. 166). Dalla scoperta
dei manoscritti inediti husserliani, studiati tra gli altri da Brand, «usciva
un’immagine della fenomenologia completamente trasfigurata, a tutta prima quasi
irriconoscibile, [...] nel senso che alla coscienza pura husserliana subentrava
la nuova soggettività incarnata, gravata di tutta la passività e l’opacità
della percezione corporea». Questo effetto radicalmente
antiidealistico della rilettura husserliana di Paci, che rompeva (anche sul
terreno culturale, come sottolinea Neri) l’ormai fragile equilibrio del razionalismo critico della tradizione
milanese, dopo il duplice incontro con Whitehead e Merleau-Ponty, «si
ricollegava indirettamente a quella profonda svolta cui la fenomenologia era
andata incontro nel periodo di Friburgo, con il passaggio delle consegne tra
Husserl e Heidegger» (ivi, p. 167) . Neri rivolge anche una sfumata critica a
Paci, accennando alla sua «indisponibilità per gli sviluppi di quello che
chiamava l’“ontologismo” heideggeriano». Una indisponibilità che era forse un
limite di consapevolezza storica: «Non c’è dubbio – dichiara infatti Neri – che
la matrice della nuova interpretazione husserliana risalisse a
quell’ascendente. Nonostante l’autonomia sempre maggiore che le posizioni di
Heidegger avevano preso dal pensiero di Husserl, la continuità del movimento
era stata garantita da alcuni allievi di entrambi, come Eugen Fink» (ibid.).
L’identica
attitudine a rileggere unitariamente la
pur differenziata lezione fenomenologica di Husserl e di Heidegger, senza troppo
concedere alla diffusa koiné ermeneutica,
cui Neri non ama mescolarsi, si coglie nel testo preparatorio della conferenza
su «Il tempo e la storia», da tenersi a Verona nel febbraio del 2001, e uscito
postumo con il titolo «La fenomenologia» (ivi, pp. 171-83). Neri assume un
significato largo e davvero radicale di fenomenologia, intesa come sforzo di ripresa,
all’inizio dell’epoca contemporanea, del thaumázein
metafisico proprio della tradizione filosofica occidentale, come attitudine
critica a «reimparare a vedere il mondo» (secondo un lessico famigliare
merleau-pontyano). Neri suggerisce un inedito dialogo a distanza tra Husserl e Heidegger,
intorno ai temi del «mondo naturale», della «crisi delle scienze», della
riduzione come recupero della «intenzionalità fungente», del senso
fenomenologico della «temporalità» (se si fa attenzione, sono i medesimi temi
che erano al centro della monografia di Brand). Neri evidenza le differenze,
anche profonde, tra gli stili fenomenologici di Husserl e di Heidegger: il
sostituirsi, alla epoché come «atto
volontario», esercitato dallo stile riflessivo dell’io fenomenologico, della
«disposizione emotiva» (Befindlichkeit)
in cui, per uno scuotimento involontario e irriflesso della vita emozionale
profonda, si «apre» angosciosamente all’esserci umano la contingenza
fondamentale del mondo. Egli individua una esatta genealogia storica di questa
diversa e più drammatica nozione di «stupore», che si può ricondurre (sia nel
caso di Heidegger, sia in quello del suo allievo Fink) a Schelling: alla sua
intuizione «circa lo sconvolgimento prodotto dal “daß”, dal “fatto che” del darsi del mondo» (ivi, p. 179). Ma
anziché contrapporre i due metodi, nei termini di una opposizione tra razionalismo e irrazionalismo (secondo moduli familiari a Banfi e al primo Paci),
egli ne vede la complementarietà storica, riferita alla sfida che il mondo della tecnica, e della scienza che ad essa si affida, pone di fronte
all’uomo contemporaneo.
Sono
soprattutto le indagini di Jan Patočka sul concetto di mondo naturale a rappresentare un punto
di riferimento per Neri: «Al mondo naturale – scrive – dobbiamo tutti tornare,
riprendere terra, riacquistare il senso comune delle cose, utilizzarle ecc. Per
conseguenza l’atteggiamento filosofico non è un possesso stabile. Perché esso
sia possibile bisogna che quella specie di terremoto che ha aperto un giorno la
strada alla domanda filosofica, torni a prodursi sempre di nuovo in ciascuno di
noi. Questo contrasto ineliminabile tra atteggiamento naturale (al quale sempre
ritorniamo) e epoché “estraniante” ci aiuta a comprendere come mai la filosofia
non si sia mai imposta stabilmente come il mondo della “ragione europea”
(Husserl) sul mondo naturale, cioè su quel modo di vita che ha preceduto la
nascita della filosofia e che continua a sopravviverle» (ivi, p. 180). Ancora
nello scritto pubblicato su aut aut
nel 1998 e in gran parte dedicato a Patočka, «L’Europa al fondo del suo
declino», Neri si richiama, di fronte ai problemi della tecnica planetaria,
alla lezione congiunta della Krisis
di Husserl e delle conferenze tenute a Brema da Heidegger nel 1949, dal titolo Einblick in das, was ist (Sguardo in ciò che è). Sono gli stessi
riferimenti contenuti nella raccolta degli scritti politici di Patočka, Liberté et sacrifice (Grenoble, Millon 1990).
Ora, la tesi che voglio suggerire, è che non si trattasse affatto di una mera visione
retrospettiva, suggerita a Neri da una più sedimentata e scaltrita coscienza
storiografica, di cui la accennata koiné
ermeneutica è un sintomo culturale vistoso. Piuttosto, era un ricongiungersi
consapevole del Neri maturo al suo punto di partenza, evocato con la citazione
dei due libri Bompiani da cui ho preso le mosse.
Difficilmente
si potrebbe sopravvalutare l’importanza che ebbe per Neri la Dialettica del concreto di Kosík. Molto
più di un libro come Funzione delle
scienze e significato dell’uomo di Paci (1962), di cui Neri non condivideva
del tutto il “fervore” lukacsiano e sartriano, il testo di Kosík rappresentava
per lui un esempio di che cosa ci si potesse attendere da un marxismo critico,
finalmente aperto al confronto con la fenomenologia. Il filosofo ceco
utilizzava senza complessi le analisi di Essere
e tempo sulla “cura”, per un confronto con i temi marxiani del lavoro astratto
e della praxis emancipatrice, non
sorda alle implicazioni ontologiche
del nesso uomo/natura (e sono i temi ripresi da Neri in uno dei suoi ultimi e
più lucidi interventi critici: «Marx: prassi e natura», 1999). Staccandosi
dalla vulgata lukacsiana e francofortese, che si limitava a ricondurre le
analisi del primo capitolo del Capitale
di Marx alla critica del lavoro alienato dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, e che riteneva di potersi risparmiare un più ravvicinato
confronto con Heidegger, liquidato come pensatore nazista o, al più, romantico-reazionario,
Kosík scriveva: «La critica che vede in Sein
und Zeit il mondo patriarcale dell’antico modo di vita tedesco è vittima
della mistificazione degli esempi di Heidegger. Heidegger descrive la
problematica del moderno mondo capitalistico del ventesimo secolo, che viene
esemplificata – nella mania romantica di sviluppare e nascondere tutto – nei
fabbri e nel lavoro del fabbro» (op. cit.,
p. 80n.). La sua analisi del lavoro
astratto, del mero «occuparsi» e «darsi cura» di un mondo «già pronto di
apparecchiature, attrezzature, relazioni e rapporti, dove il movimento sociale
dell’individuo si svolge come intraprendenza, occupazione, onnipresenza,
attaccamento» (ibid.), avrebbe qualcosa
da dare a pensare alle menti,
ideologicamente scaltrite, dei marxisti. Kosík non cita le conferenze di Brema,
che saranno invece richiamate da Patočka e da Neri, ma era abbastanza
implicito che esse fossero nello sfondo della sua rilettura di Essere e tempo: in particolare la
seconda, Das Ge-Stell (termine che
Neri non traduce, secondo la vulgata, “impianto”, ma parafrasa con la
circonlocuzione “intimazione pro-vocante”, con maggiore aderenza, non solo all’arduo
dettato heideggeriano, ma al senso di “apertura”, di rimando pre-categoriale
alla praxis umano-sensibile e
vivente, che le categorie fenomenologiche debbono sforzarsi di conservare).
Così Neri riassume lo status quaestionis
nel finale della conferenza su «La fenomenologia»: «Nell’insieme, per
riassumere la situazione in una sola immagine, è come se la natura e il mondo
naturale, che l’uomo voleva assoggettare alla Storia e dominare con la Tecnica,
si prendessero una rivincita, utilizzando le stesse realizzazioni tecniche più
grandiose per imporre agli uomini una riproduzione allarata, amplificata, della
semplice vita naturale, che si fa beffe di ogni progetto storico. A queste
conclusioni poco ottimistiche sono giunti, indipendentemente, due allievi di
Heidegger, Jan Patočka e Hannah Arendt, riflettendo sulla storia dell’occidente
e sulla modernità» (op. cit., p.
182).
Gli
scritti di Neri meriterebbero davvero una più ampia e attenta disamina. Voglio
qui limitarmi a suggerire nella idea di una fedeltà
sostanziale e di una consequenzialità non dogmatica a quello che mi sembra
di avere sufficientemente adombrato come l’inizio
della sua riflessione, l’eredità più valida del pensatore e il dono più caro
che egli consegna ai suoi amici. L’itinerario di Neri non si è andato dipanando
in base alle presunte urgenze dell’attualità pseudo-culturale, e tanto meno
secondo le “intimazioni pro-vocanti” del dover essere accademico (che ha saputo
per altro sempre onorare, con il rigore degli studi e la sincerità della
vocazione pedagogica). Esso ha conosciuto la lenta maturazione dei pensieri davvero
universali, che traspaiono da tutte le pagine, sempre meditate, che ha
pubblicato, così come uscivano freschi e persuasivi dalla sua voce, che ci è
troppo presto mancata. Dino Formaggio lo ha scritto per tutti noi, con parole
semplici e insuperabili: «Noi abbiamo incontrato Guido e la sua intelligenza:
andiamogli dietro, accompagniamoci a lui e accompagniamolo ancora».