Paola Grassi, L’interpretazione dell’immaginario. Uno studio in Spinoza, Edizioni ETS, Pisa 2002, 192 pp.

 

L’apertura sul possibile nel cuore stesso del determinismo: questo l’esito dello studio in Spinoza che Paola Grassi conduce sulla scorta dell’ermeneutica ricoeuriana per esplorare il tema dell’immaginario in Spinoza. La problematica applicazione del termine contemporaneo “immaginario” ad un filosofo del Seicento (nella cui opera esso compare raramente come aggettivo e mai come sostantivo) viene chiarita in un preliminare capitolo dedicato a Questioni di terminologia filosofica, in cui l’immaginario è identificato non con l’opposto di ciò che è reale, ma piuttosto con quella zona opaca del sé che chiede di essere interpretata e condotta al senso. I termini usati più frequentemente da Spinoza per indicare la dimensione dell’immaginario sono imago, imaginari, imaginatio, fictio e fingere (phantasia compare solo raramente), costellazione semantica che, anche se declinata in modo originale, risente ovviamente della concezione svalutativa seicentesca nei riguardi dell’immaginazione.

Dopo un accurato excursus terminologico che apre il campo alla ricerca e prefigura le principali questioni, nel capitolo Ricoeur interprete di Spinoza l’autrice dà ragione della scelta di far interagire la riflessione spinoziana sull’immaginazione con il pensiero ermeneutico ricoeuriano sull’immaginario, scelta autorizzata e condivisa dallo stesso Ricoeur in alcune lettere scambiate con l’autrice (p. 41, nota n.1; p. 55, nota n. 33). «La frequentazione ricoeuriana di Spinoza è discreta, ma costante […] e la lettura di Spinoza sembra davvero potersi dire il più creativo, ancorché meno evidente non-detto della filosofia dell’interpretazione» (pp. 41-42). L’obiettivo dell’autrice è dunque quello di rintracciare gli esiti della presenza di Spinoza in Ricoeur, applicandoli poi con un procedimento circolare alla riflessione spinoziana per aprire in essa nuove prospettive.

Nel secondo volume della Philosophie de la volonté, pubblicato nel 1960, dunque due anni dopo il corso universitario su Spinoza tenuto a Strasburgo, Ricoeur configura il desiderio come modalità di apertura al mondo, come impulso orientato non verso se stessi ma verso quel desiderabile che è nel mondo, facendo riferimento alla lettura cartesiana del desiderio come mancanza e privazione, dunque in negativo, e alla lettura spinoziana, in positivo, del conatus come affermazione di sé. Il desiderio, che è insieme mancanza esperita di e impulso orientato verso, si lega inevitabilmente al tema dell’immaginazione: infatti il bisogno anticipa l’incontro con l’oggetto desiderato, poiché ne possiede una “prenozione organica” che precede la rappresentazione e il volere. Essa è una sorta di mancanza orientata grazie all’immaginazione, la quale si rivela dunque sguardo intenzionale sull’assenza e non presenza mentale irrealizzante (come ne L’imaginaire di Sartre). L’immaginazione, mediando tra bisogno e volere, non è affatto evasione e smentita del mondo, ma potenza di configurazione del possibile, apertura al futuro e anticipazione del reale a venire. «L’immaginazione, dando consistenza al desiderio di un’assenza, apre all’orizzonte del volontario nel cuore stesso dell’involontario» (p. 46). La filosofia di Spinoza, nella lettura che ne dà Ricoeur, condivide con la psicoanalisi una demistificazione della libertà assoluta della coscienza e la consapevolezza dell’essere determinati dal «flusso imperioso delle motivazioni profonde». L’illusione della coscienza di poter disporre di sé è smascherata come finzione e la libertà diviene nuovamente possibile solo come determinazione compresa. «La meditazione dell’opera di Freud restituisce, secondo Ricoeur, un nuovo concetto di libertà, che è molto simile a quello di Spinoza, cioè a dire, non più libero arbitrio ma liberazione» (pp. 50-51). Così la conoscenza non è intuizione, «bensì l’appropriazione del nostro sforzo per esistere e del nostro desiderio. La conoscenza non è autonoma, essa si radica nell’esistenza intesa come desiderio e sforzo».[1] Dunque la conoscenza viene a coincidere con il cammino etico di riappropriazione del sé, cammino che comporta un attraversare le proprie passioni come contromovimento necessario rispetto all’inevitabile esserne attraversati (obnoxii). Nel percorso circolare disegnato dall’autrice, si stabilisce in Spinoza una proporzionalità tra imaginatio e ratio corrispondente a quella che, in Ricoeur, si stabilisce tra simbolo e concetto: l’immaginazione, come il simbolo, dà a pensare. La riflessione pertanto può rispondere alla domanda sull’essere solo a partire dal fondo oscuro della interiorità umana rivelato dall’immaginazione.

Utilizzando un tale orizzonte interpretativo, l’autrice registra nell’opera spinoziana il progressivo passaggio da una descrizione fenomenologica delle figure dell’immaginare (nel Tractatus de intellectus emendatione e nel Tractatus theologico-politicus) ad una scienza dell’immaginazione intesa come genesi delle dinamiche che la caratterizzano (nell’Ethica), in un movimento che nel suo insieme può essere configurato come un’ermeneutica. «Trasformandosi in oggetto di conoscenza – e, conseguentemente, di interpretazione -, ciascuna figura dell’imaginari si definisce progressivamente come funzionale ad un processo di appropriazione del soggetto, il quale investe da principio le possibilità conoscitive, ma conseguentemente etiche del soggetto stesso» (p. 67).

Con il terzo capitolo, intitolato Lessico dell’immaginare, ci si addentra maggiormente nell’opera spinoziana, individuando le diverse modalità dell’immaginare e i suoi prodotti. Sulla scorta dei numerosi studi critici apparsi sull’argomento, l’autrice ripercorre nelle diverse opere la posizione assunta da Spinoza nei riguardi dell’immaginazione e dei suoi prodotti. Nel Tractatus de intellectus emendatione, distinguendo tra idee vere e idee fittizie che hanno origine dall’immaginazione, Spinoza conferisce a quest’ultima un carattere passivo opponendola nettamente all’intelletto, per sua natura attivo e capace di formare idee adeguate; in quest’opera si stabilisce inoltre un rapporto di proporzionalità inversa tra potentia fingendi, conoscenza vaga e imprecisa delle cose, e potentia intelligendi, ovvero capacità di conoscere correttamente le cose. La humana imbecillitas - che non si radica nella natura umana, ma proviene piuttosto da ciò che dall’esterno limita la sua potenza - annovera pertanto tra le sue forme anche quella praecipitantia fingendi che porta l’uomo scegliere la via più facile dell’immaginazione e ad allontanarsi dalla conoscenza. Tuttavia, come l’autrice mette giustamente in rilievo, il metodo di emendazione dell’intelletto non consiste in «un sistema di indicazioni normative per procedere nella conoscenza, ma è propriamente una riflessione sulla conoscenza dall’interno della pratica conoscitiva» (p.75), una frequentazione critica delle idee della immaginazione, dalle quali emergono per contrasto le idee vere. Già a partire da quest’opera, dunque, il lato sensibile e immaginativo dell’essere umano viene considerato come ineliminabile punto di partenza per la conoscenza di sé.

Il tentativo della emendatio prosegue nel progetto etico-politico del Tractatus, il quale prende in esame il pregiudizio e la superstizione. Essi, come la confusione e l’errore, sono prodotti dell’immaginazione poiché nascono dall’ignoranza delle cause delle cose e dall’inversione dell’ordine naturale del comprendere. Soltanto nell’Ethica Spinoza analizza la costituzione fisiologica dell’immaginazione per comprenderne le modalità di funzionamento, passando in tal modo da una descrizione ‘fenomenologica’ ad una vera e propria scientia imaginationis. In questa sede, com’è noto, si chiarisce che la mente non erra per il fatto stesso di immaginare, ma solo quando manca della consapevolezza di tale immaginare, quando non colma la parzialità dell’immagine con un’idea vera.

Al tema della profezia così come è esposto e chiarito nel Tractatus theologico-politicus è riservato l’intero capitolo quarto, Profezia e ontologia, in cui il discorso sull’immaginazione viene ampliato ai rapporti di Spinoza con l’ebraismo, rintracciando «le interpretazioni del fenomeno profetico […] contro le quali Spinoza polemizza […] nel tentativo di riattivare quello che era a suo avviso il concetto originario di profezia» (p.124). La profezia, infatti, quando non è erroneamente intesa come anticipazione di eventi futuri ma è riportata alla dimensione della rivelazione che le è propria, coincide in sostanza con la conoscenza naturale, anche se viene comunicata e trasmessa con un linguaggio comprensibile al volgo. L’autrice sottolinea che nell’ebraismo «la nibba non indica in alcun modo una anticipazione di eventi futuri, quanto piuttosto il disvelamento dell’assoluto» (p. 130), così come il navi non è il veggente o il visionario (roeh, colui che vede): l’equivoco è generato dal fatto che «nella traduzione greca delle scritture ebraiche le tre espressioni ebraiche – roeh, hozeh e navi – sono univocamente rese dal termine prophetes» (ibid.).

Attraverso la rilettura del mito della caduta, che il capitolo Adamo e il serpente ripercorre, Spinoza esprime in modo paradigmatico quell’intreccio tra ontologia, gnoseologia ed etica che si può evincere dalla sua opera. Rielaborando l’iconologia maimonidea che, in linea con il Midrash, identificava la tentazione serpentina con quella sensibile e immaginativa, la vicenda esemplare dell’Adamo spinoziano si configura come quell’affondamento necessario e faticoso nelle profondità del sensibile e dell’affettività, della vita, dal quale la conoscenza trae origine e significato etico, configurandosi come istanza di liberazione dall’ignoranza delle cause che ci determinano. Attraverso l’attività del nominare, affidata da Dio ad Adamo, l’uomo porta alla chiarificazione della ragione il fondo oscuro e confuso che lo costituisce, convertendo la passività in attività e il fato in necessità compresa. Dunque il vero peccato consiste per Spinoza nel tentare di acquisire la conoscenza del bene e del male dall’esterno, sfuggendo il duro lavoro del confronto con la propria appartenenza alla terra, il riconoscimento della propria originaria condizione ontologica di “essere di desiderio”.

Emerge pertanto in conclusione la piena persuasività e la proficuità dell’impostazione scelta dall’autrice, che legge nell’attraversamento gnoseologico ed etico dell’immaginazione da parte di Spinoza quella che, nell’intitolazione dell’ultimo capitolo, chiama con termini ricoeuriani Ermeneutica dell’immaginario e adesione al sé. Attraverso un percorso ermeneutico che parte dal riconoscimento di un dato ineliminabile della nostra natura, la capacità di immaginare, e da una descrizione fenomenologica delle molteplici forme del suo darsi, il soggetto giunge progressivamente ad una comprensione razionale di questa vis, che gli consente di conferirle lo statuto di virtus. L’orizzonte che Spinoza e Ricoeur condividono e che rende produttiva una loro lettura circolare è quello di una razionalità che sfrutta consapevolmente le potenzialità dell’immaginazione, guidandola ad assumere la sua massima espressione come potenza di configurazione del possibile. La coscienza emerge rafforzata dal viaggio nell’immaginario che ne ha rivelato come illusoria l’apparente libertà ed arbitrarietà, poiché una tale demistificazione «è la condizione di ogni riappropriazione del soggetto vero».[2] L’orientamento del conatus imaginandi ad opera della ratio lo trasforma in cupiditas imaginandi, permettendo una più consapevole gestione degli affetti. Nella cornice rigidamente deterministica, all’interno della quale progetto gnoseologico ed etico si situano, la possibilità di autodeterminazione da parte del soggetto si esplica come libertà nella produzione di idee adeguate delle affezioni corporee, dalle quali possano scaturire affetti che aumentino la potenza di sé.

Benedetta Zavatta



[1] RICOEUR, Herménetique des symboles et réflexion philosophique. II, in Le conflit des interprétations, Edition du Seuil, Paris 1969, p. 324.

[2] RICOEUR, La question du sujet: le défi de la sémiologie, in Le conflit des interprétations, cit., p. 259.