Graziella Travaglini - Università di Urbino

Questo lavoro di Daniele Guastini, Prima dell'estetica. Poetica e filosofia nell'antichità [1] , inserisce il problema del rapporto arte-verità in una prospettiva storico-epocale che ci mostra come la perdita del valore veritativo dell'arte che caratterizza la modernità, di cui l'estetica moderna ha costituito il pieno riconoscimento e racchiusa emblematicamente nella diagnosi hegeliana sul carattere passato dell'arte, sia parte di un evento storico che presupone che ci sia stato «un prima dell'estetica in cui le cose – in particolare certe cose di cui diremo tra poco – si vedevano in modo diverso, e che ci sarà un poi in cui il modo di vedere le cose che ha portato all'estetica potrebbe venire meno» (p. VII).

Il libro, quindi, muove dalla riflessione sul carattere storicamente determinato dell'estetica, che – si sostiene – non è una disciplina sempre esistita nella storia del pensiero occidentale, alla quale la modernità avrebbe dato solo uno statuto nominativo, ma un prodotto legato costitutivamente alla nascita della modernità e del soggettivismo moderno, in cui si viene affermando una nuova concezione della sensibilità e con essa dell'arte. L'estetica moderna nasce portatrice di questa duplice tendenza fondamentale: di essere una teoria della sensibilità, pensata come una facoltà separata e autonoma rispetto all'intelletto, e soprattutto subordinata ad esso; e di pensare l'arte, in quanto oggetto epistemico di questo nuovo modo di intendere la sensibilità, come ambito separato dagli altri saperi, producendo in tal modo quello che verrà definito il fenomeno della differenziazione o segregazione estetica, per cui l'arte andrà sempre di più assumendo il valore di un Erlebnis, di un'esperienza soggettiva che non incide più sulla verità e sulla storia. Modernità che – secondo l'autore – trova le sue radici in quell'evento storico, che segna una profonda rottura, e quindi una svolta epocale rispetto al mondo greco classico, che è la nascita del cristianesimo, l'imporsi della cultura giudaico-cristiana e con essa l'idea creazionistica, irriducibile ad ogni concezione del divino e del sacro propria dell'antichità greca.

Quali sono i motivi per cui questo libro induce pensiero? Questo testo ci restituisce un'interpretazione forte della storia della poetica e con essa della storia del pensiero occidentale (in questo debitore, come l'autore stesso mette in evidenza, verso la interpretazione hegeliana del cristianesimo come inizio di una nuova fase della storia del pensiero). E, come ogni interpretazione forte, il percorso teorico che l'autore propone ci induce a riflettere e a prendere in qualche modo posizione. Questa storia è segnata da due concetti fondamentali, potremmo dire, prendendo a prestito una espressione heideggeriana quanto mai adeguata in questo caso, da due Grundworte, due parole fondamentali che indicano le direttrici essenziali della riflessione sull'arte e del rapporto che si stabilisce tra arte e verità: la prima è la nozione di mimesis, alla quale l'autore ascrive sia il pensiero legato alla produzione poetica, sia la riflessione filosofica sulle poetiche della classicità greca fino ad Aristotele; la seconda è la nozione di allegoria, che si viene imponendo nella cultura ellenistica, troverà la sua piena affermazione nell'arte cristiana e una compiuta definizione teorica nella ermeneutica biblica.

Potremmo dire, tenendo conto di questa radicale contrapposizione tra due epoche, che prima dell'estetica c'era la poetica, segnata fondamentalmente dal concetto di mimesis portatore di un valore ontologico, gnoseologico ed etico dell'arte. E qui si iscrive un altro motivo forte della riflessione di questo libro: evidenziare il legame costitutivo che si stabilisce tra arte e verità nella cultura della Grecia classica significa contemporaneamente sottolineare di questa stessa verità la centralità del momento sensibile legato indissolubilmente alla theoria, per cui la verità viene caratterizzata fondamentalmente dalla contingenza e dalla determinatezza. È interessante a questo proposito accennare alla lettura proposta di Aristotele, dove la sostanza viene ricondotta primariamente a sostanza individuale, sostanza singolare e gli stessi principi sui quali si fonda la episteme a principi che hanno natura dialettica e doxastica (p. 86).

Quindi, il concetto di mimesis segna l'intero orizzonte ontologico della classicità greca, che viene disgregandosi con la svolta epocale determinata dalla nascita del cristianesimo. Svolta che si costituisce come un'affermazione della figura dell'allegoria, caratterizzata fondamentalmente da quella visione dualistica della verità che condurrà alla concezione dell'arte come forma di esperienza soggettiva; dimensione in cui verrà perdendo progressivamente il suo valore veritativo. Con l'affermazione di questo orientamento allegorico la verità non verrà più pensata come parousia, come immanenza dell'essere nell'ente, ma come un significato nascosto che trascende il suo darsi nella percezione, la quale deve essere superata per una ricerca del sacro non più orientata verso le cose sensibili, ma verso l'interiorità dell'animo.

Ovviamente il concetto di mimesis non va interpretato nell'accezione consueta, che viene riferita abitualmente al valore che la mimesi ha in Platone, di simulacro, di copia sbiadita di un essere che si dà nella sua inseità, rispetto alla quale la rappresentazione non sarebbe altro che un mero rispecchiamento situato nel gradino più basso della gerarchia ontologica. Anche la riflessione platonica viene qui iscritta sotto il segno della mimesis considerata nel suo valore veritativo, e ciò avviene mettendo in evidenza come la condanna della poietike mimesis si accompagni ad una considerazione del valore veritativo ed etico del mythos filosofico, in cui il momento della aisthesis viene riabilitato come capacità della rappresentazione mitica di rendere sensibile, di esibire attraverso un'immagine sensibile l'ideale e il sovrasensibile.

Come si è detto, il concetto di mimesis segna fondamentalmente non solo la sfera poetica, ma l'intero orizzonte ontologico della classicità greca. Inoltre, esso non solo caratterizza la riflessione filosofica sull'attività poetica, ma la poiesis stessa. Imitazione significa somiglianza o verosimiglianza e questa somiglianza implica – come l'autore stesso afferma – una dipendenza della rappresentazione dal rappresentato; ciò vuol dire anche che, per i greci, la verità è sbilanciata a favore della sua appartenenza alle cose, al dato, piuttosto che al soggetto conoscente. Ma questa somiglianza o verosimiglianza non significa riproduzione di una datità, ma porta con sé il valore della scoperta, un valore euristico dell'immagine poetica che porta allo scoperto il principio del venire all'essere delle cose, quella forza generatrice, la physis che imprime la sua legalità al manifestarsi dell'ente, è un portare allo scoperto quel fondamento sovrasensibile che è immanente alle cose. L'immagine poetica ha, per i greci, primariamente il valore di scoperta, e non di invenzione e creazione, come si definirà nella modernità.

Quindi, il concetto di somiglianza implica una dipendenza della rappresentazione da ciò che è rappresentato. Questo legame ontologico fa sì che la poiesis venga considerata un sapere tra gli altri saperi e in stretta connessione con essi. Un legame ontologico che la modernità scioglierà definitivamente con l'imporsi dei concetti di genio, di gusto, di bellezza soggettiva, attraverso i quali l'immagine viene assumendo sempre di più il carattere di un'autoproduzione soggettiva, che non va più compresa in rapporto agli ambiti del sapere che definiscono il vero, ma in una sfera autonoma e autoreferenziale.

«La verità per i greci è calibrata prima sulla cosa che sul nostro sguardo» – dice l'autore (p. 13) – e l'«essere si dà come già originariamente formato fuori di noi e nei confronti del quale alla nostra facoltà conoscitiva non resta altro che conformarsi e adeguarsi al meglio delle sue possibilità» (p. 12). In tal senso la verità si configura come un movimento ab extra del soggetto, una ek-stasis, un movimento continuo di adeguamento delle nostre facoltà alle cose, una «adaequatio intellectus cum rebus, adeguamento e subordinazione dell'intelletto, attraverso la percezione sensibile, alle cose fuori di noi» (p. 13) e non, come una «adaequatio rei et intellectus, come verrà inteso dalla scolastica medievale, nel cui intendimento si può già cominciare a prefigurare il paradigma critico-trascendentale kantiano dell'adeguamento del mondo fuori di noi alle nostre facoltà conoscitive» (pp. 12-13). Movimento che impegna quindi contemporaneamente aisthesis e theoria, in cui le forme del sentire non vengono subordinate alla sfera intellettuale, e quindi essenziale diventa la contingenza nella costituzione della verità. Verità che si definisce come un lasciarsi prendere dalla manifestatività dell'essere, che produce di volta in volta stupore e meraviglia proprio in quanto eccede di principio la nostra possibilità di dominarlo cognitivamente e di assoggettarlo.

L'essere, per i greci, è insomma segnato da questa eccedenza rispetto alla nostra possibilità di coglierlo come un oggetto totale.

Vorrei a questo punto fare riferimento ad una delle parti più incisive del libro, in cui il pathos per il singolare raggiunge il momento di massima persuasività: la parte su Aristotele nella quale viene messo in evidenza il nesso tra etica e poetica, attraverso il legame tra katharsis e phronesis. L'interpretazione offerta di questo nesso è frutto di una convincente lettura intertestuale che mette in relazione Poetica, Retorica, Etica Nicomachea e Politica. Lettura che segue alcuni motivi essenziali che caratterizzano la riflessione sul concetto di katharsis propria dell'ermeneutica filosofica. Qui si coglie in maniera esemplare come il rapporto tra la verità finita che l'opera configura e la praxis non sia solo un nesso conoscitivo – per il quale l'opera ci permette di conoscere la forma contingente e dinamica, il telos della prassi umana – ma anche un legame etico, per cui l'opera agisce nella direzione di una ridefinizione del mondo della praxis.

La tragedia dice Aristotele «è imitazione di un'azione nobile e compiuta, la quale per mezzo della pietà e del terrore finisce con l'effettuare la purificazione di cosiffatte passioni» (Poetica, VI, 1449b). La tragedia ha come fine la trasformazione delle passioni di pietà e terrore, che sono sentimenti immediati di reazione, di non accettazione e di opposizione al destino tragico dell'eroe, alla cui sorte reagiamo con le stesse modalità emotive che riserviamo ai nostri cari. La mimesi tragica ci conduce ad una sospensione di queste passioni di primo grado per trasformarle in quella che Gadamer chiama «coscienza della determinatezza storica», una coscienza che è un sentimento filosofico – lo definisce Guastini – filantropico, un sentimento di condivisione del nostro destino di esseri finiti e mortali: in definitiva, la trasformazione di un sentimento da privato a universale. Ma questa esperienza, che ha in qualche modo il senso di una coscienza che patiamo, si accompagna contemporaneamente ad un'assunzione attiva delle passioni, che per Aristotele sono una componente fondamentale della nostra saggezza pratica, la phronesis, e in quanto tali possono, se orientate nella giusta maniera, essere veicolo di virtù. La virtù etica, per Aristotele, trova la sua eccellenza non in quanto porta al massimo grado le intenzioni virtuose del soggetto, la sua buona disposizione d'animo, la virtù morale, ma quando riesce a trovare il giusto mezzo che le permettte di adattarsi alle circostanze particolari in cui l'uomo agisce: è un'attività secondo virtù. Questo tipo di saggezza, in quanto conoscenza del particolare, secondo Aristotele, è profondamente legata alle nostre passioni, che orientano costitutivamente l'azione dell'uomo, e può essere appresa solo attraverso una conoscenza che includa le dinamiche passionali: la composizione tragica, la cui funzione è produrre la catarsi, intesa come riequilibrio delle passioni, diventa la forma esemplare di questo tipo di conoscenza capace di orientare la phronesis.

L'opera quindi refluisce nel mondo attraverso una trasformazione delle passioni, che da sentimenti privati diventano sentimenti che hanno valenza ontologica ed etica e che consentono di trovare la misura, il giusto mezzo che ci permette di orientare e di guidare la nostra condotta evitando di incorrere negli stessi errori di cui è rimasto vittima l'eroe tragico. L'assunzione della tragicità dell'esistenza e della nostra finitezza diventa quindi cooriginariamente un'assunzione attiva che ci mette nella condizione, non garantita ma da costruire di volta in volta, di ricomporre la frattura tragica attraverso una educazione delle passioni. L'opera quindi viene riconsegnata al mondo dello spettatore, che la riceve con un'accresciuta capacità di farsi carico del carattere contingente del nostro stare al mondo e nello stesso tempo con un'accresciuta capacità di produrre sempre nuovi criteri di organizzazione della nostra condotta pratica, in definitiva accresce quella “saggezza pratica”, la phronesis, che ci fa agire in modo commisurato alle circostanze

Ho voluto porre l'attenzione su questa parte del libro, perché il concetto di katharsis mostra eminentemente un significato fondamentale che la contingenza e la custodia del valore della sfera del sensibile ha nella verità della poiesis nel mondo greco, cioè il valore di una paideia, e, in quanto tale, non è mai separato dal momento razionale, che educa l'uomo ad agire bene facendosi carico del carattere contingente del suo stare al mondo.

Paul Ricoeur, ripensando a fondo il concetto di mimesi ha scritto che questa ha «il potere di aprire nuove dimensioni di realtà» e che la finzione ha il potere di ridescrivere la realtà e di rigenerare il nostro rapporto con il mondo [2] .

Potremmo quindi appropriarci di questo lavoro leggendolo nella prospettiva teorica in cui si è mossa l'ermeneutica contemporanea, cioè nella direzione di una possibilità di desoggettivizzazione della esperienza estetica attraverso un ripensamento dei concetti fondamentali della poetica classica e attraverso un ripensamento delle loro implicazioni etico-pratiche. E quindi attribuendogli il compito di porsi nella prospettiva di quel “poi” (come possiblità di rimettere in movimento l'esperienza dell'arte come esperienza di verità) tramite un'analisi della genesi storica dell'estetica, che non deve essere pensata come un dato, ma come un prodotto storico e quindi sottoposta ad un'interrogazione critica, e ripensando alcuni concetti fondamentali delle poetiche antiche, che possono risultare ancora oggi produttivi per ricostituire quel nesso tra arte e verità.

Ma la definizione di orizzonti di senso intrascendibili – come emerge dalla riflessione di questo lavoro – segnati da una rottura non negoziabile, in cui arte e pensiero vengono definiti in una sovrapposizione perfetta, attraverso dei concetti fondamentali, che ne dichiarano l'essenza, ci restituisce la visione di una radicale inattualità di un'esperienza dell'arte segnata dal concetto di mimesis, e fa pensare che la forza dell'affermazione hegeliana rimanga – nella prospettiva delineata dall'autore – dominante rispetto ad ogni tentativo conciliatorio che volesse rimettere in dialogo categorie fondamentali con le quali la classicità greca pensava il rapporto tra arte e verità con la nostra esperienza estetica. L'autore ci dice, infatti, che la nascita dell'estetica, e insieme ad essa dell'arte, mostra in maniera esemplare l'imporsi di un nuovo paradigma epocale segnato dal soggettivismo: «la sua origine storica è conseguenza del nuovo modo di vedere le cose tipico della modernità; di una lunga e laboriosa formazione rimasta sostanzialmente estranea all'orizzonte dell'antichità. A conferma di questo fatto basta guardare all'oggetto intorno al quale l'estetica si costituisce: l'arte. […] l'estetica è un evento storico perché lo è il suo oggetto disciplinare […]. Il suo oggetto è effetto e non presuposto della suo formazione storica» (p.IX).

Il passo indietro, che l'autore compie verso le origini dimenticate del nostro pensiero, non ha l'andamento di una ricerca volta a riportare a memoria significati rimasti inascoltati dalla tradizione metafisica, per cogliere in essi la possibilità di un'esperienza dell'arte non più assimilabile all'esperienza vissuta. Il passo indietro, in questo caso, ha la caratteristica di uno sguardo distaccato, che prende atto che la dimenticanza non significa un impensato da riportare a memoria, ma consapevolezza di un passato che non agisce più in alcun modo (neppure nascosto) sul nostro presente e che non ha più parole o significati rimossi di cui l'esperienza dell'arte, segnata dal soggettivismo metafisico, può mettersi in ascolto.

Forse ci si congeda da ogni testo che ci induce alla riflessione con l'impressione di una difficoltà e dell'apertura di una qualche tensione aporetica. Questo lavoro di Guastini, da una parte, con la sua lettura radicale della storia della storia del pensiero, restituisce un percorso interpretativo coinvolgente, soprattutto per il phatos che lo caratterizza; dall'altra, se entriamo e seguiamo la prospettiva interpretativa in cui ci colloca l'autore, la domanda verso la quale ci conduce è che cosa ne facciamo – in che modo per noi può essere una cosa che ‘conta' – della bella ricognizione nelle poetiche e nel pensiero dell'antichità? Ma soprattutto, da dove è venuta fuori questa comprensione del mondo della grecità classica – segnato fondamentalmente da un realismo metafisico – in un'epoca caratterizzata da una rottura radicale e inderogabile rispetto a quell'orizzonte, se ogni nostra apertura interpretativa non può essere che radicalmente situata nel paradigma soggettivistico?



[1] Rinvieremo alle pagine di questo volume indicandole senz'altra indicazione tra parentesi nel testo.

[2] Ricoeur, P., 1981, La metafora viva, trad. it. di G. Grampa, Milano, Jaca Book.

 

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