Giulia Montemezzo

Università di Ferrara

giu762000@yahoo.it

 

 

 

polemica antireligiosa,

libertinismo e dissimulazione

Nel Candelaio di Giordano Bruno

 

 

 

 

 

 

 

SOMMARIO

 

 

 

1. Bruno e la controcultura libertina: alcune premesse. 3

2. La scrittura cifrata e l’allegoria. Bruno tra Lutero ed Erasmo.. 7

3. Il sacro dissacrato nel Candelaio.. 11

4. La parodia del «perdono dell’altrui offese». 19

5. Una nuova concezione dell’onore: il Candelaio e il primo coro dell’Aminta.. 24

6. Per una rifondazione morale: l’elogio paradossale della prostituzione. 27

 


 

 

 

ABSTRACT

 

The present study intends to offer a contribution to the interpretation of Giordano Bruno’s ‘libertinage’, focused in particular on the stage of Bruno’s only comedy: Candelaio, which is now analysed.

Set between the flight from Naples and the first french experience (1576-83), the Candelaio either shows a peculiar moment of Bruno’s philosophical thought and marks a basical step to understand Bruno’s conception of faith, catholic religion, superstition, and Churche’s hierarchy.

From a themathic point of view, the main attention is thus focused on the double level of Bruno’s writing, language and style in relation with the Scriptures and the debate between Erasmus and Luther, on the sacred liturgy’s ‘dismantlement’ and parody, and on the paradoxical turn over applyied to basic concept in civil society such as honour and chastity. Bruno’s thought shows thus, since the very first experiences, a broad evidence of a close relationship between the «Nolano» and the italian «Averroismo» and even his deep knowledge of a couple of very different, but certainly important ‘restless’ intellectuals: Ortensio Lando and Torquato Tasso.

 

 

 


1. Bruno e la controcultura libertina: alcune premesse

 

Nel testo della terza denuncia di Giovanni Mocenigo all’inquisitore di Venezia Gabriele da Saluzzo in data 29 Maggio 1592, si legge:

Molto reverendo Padre et signor mio osservandissimo, perché la Paternità Vostra molto reverenda m’ha imposto ch’io vada molto ben pensando a tutto quello ch’io havessi udito da Giordano Bruno, che facesse contro la nostra fede catholica, mi son ricordato d’havergli sentito dire, oltre le cose già scritte a Vostra Paternità molto reverenda, che il proceder che usa adesso la Chiesa, non è quello ch’usavano gl’apostoli, perché quelli con le predicationi et con gl’esempi di buona vita convertivano la gente, ma che hora chi non vuol esser catholico, bisogna che provi il castigo et la pena, perché si usa la forza et non l’amore; che questo mondo non poteva durar così, perché non v’era se non ignoranza, et niuna religione che fosse buona; che la cattolica gli piaceva ben più de l’altre, ma che questa ancora havea bisogno di gran regole; et che non stava bene così, ma che presto presto il mondo haverebbe veduto una riforma generale di se stesso, perché era impossibile che durassero tante corruttele; et che sperava gran cose su’l Re di Navara, et che però voleva afrettarsi a mettere in luce le sue opere et farsi credito per questa via, perché, quando fosse stato tempo, voleva essere capitano; et che non sarebbe stato povero, perché haveria goduto i thesori degl’altri[1].

Per primo il Corsano ha letto nel pensiero bruniano una fortissima spinta all’azione, che sottrarrebbe progressivamente spazio al movente teoretico concretandosi in un vero e proprio progetto di riforma della religione e della civiltà[2]. Lo studioso, analizzando in particolar modo il De magia ed il De vinculis, due delle opere magiche, ha ipotizzato che la vocazione didattica di Bruno avesse determinato nel periodo francofortese la risoluzione di tornare in Italia per potervi instaurare il suo programma di ecumenica conversione. La passione per l’insegnamento stava in quegli anni convogliandosi sempre più su un terreno etico e sociale, traducendosi in nuova predicazione e in nuovo apostolato. Il rinnovamento della scienza auspicato dal Bruno stava curvando in direzione religiosa e disegnava una parabola che tornava alla riforma propugnata nello Spaccio ben nove anni prima. Il Nolano avrebbe varcato le Alpi, secondo il Corsano, invitato dal Mocenigo, recando nell’animo una radicata fiducia nella tolleranza dell’amministrazione oligarchica veneziana per le differenti voci religiose e nella gelosia della Repubblica per le proprie facoltà giurisdizionali; avrebbe tentato di realizzare il folle proponimento di farsi avanti all’interno della gerarchia ecclesiastica, all’ombra di un Pontefice bonario e liberale quale era Clemente VIII, fino a ridurlo in proprio potere grazie all’esercizio delle sue arti, probabilmente convinto di poter, una volta assunto su di sé il dominio dell’intera nazione, mettere in atto il proprio disegno di riforma della civiltà. Una religione intellettualistica, naturalistica, semplificata, spoglia di ogni dogmatismo, più vicina ad un deismo fondato sull’universale filantropia[3]: questo doveva essere lo spirito che avrebbe animato quella «setta dei giordanisti» di cui Bruno fu sentito discorrere dai suoi compagni di prigionia durante la detenzione veneta.

In una tale prospettiva non si può ricondurre il libertinismo bruniano a pura insofferenza nei confronti del cristianesimo “depurato” della Riforma, né di quello ribadito dalla Controriforma. Scrive lo Spini che «se il Bruno libertino sta tutto nei suoi scatti di fastidio verso preti, frati, reliquie e cerimonie, nelle sue trovate satiriche, o magari nei suoi accessi di umore collerico del carcere, si corre il rischio di ridurlo praticamente alle dimensioni di un caso psicologico, piuttosto che di un fenomeno storico, ad un fatto di “caratteraccio”, piuttosto che ad un atteggiamento ideale nei confronti del problema del cristianesimo»[4]. Spia del carattere fondante del libertinismo bruniano è la complessa strategia di comportamenti messi in atto nel corso del processo. Firpo individua nella condotta del Nolano attraverso i diversi stadi del procedimento, i punti di un vero e proprio programma difensivo. Per tutta la prima fase dell’accusa (sostanzialmente fino alla denuncia di fra Celestino da Verona[5]), Bruno si barricò in una tenace ostinazione negativa che si trasformò solo successivamente, a causa della gravità delle imputazioni, nel triplice tentativo a) di giustificare ciò che si conciliava con il dogma, b) di negoziare il negabile e c) solo in casi estremi di ripudiare i propri errori e chiedere clemenza per essi. Questo altalenante movimento tra ricerca di un’intesa sul piano concettuale e dogmatico e diniego ostinato lasciava aperta la concreta possibilità di limitare il complesso delle imputazioni ad un caso di infrazione disciplinare. In campo filosofico e teologico tuttavia l’atteggiamento del Nolano fu assai diverso. Egli tentò costantemente e strenuamente una conciliazione tra verità della propria filosofia e verità rivelata epurata delle sovrastrutture dogmatiche, lasciando talora interdetto l’uditorio e allestendo in aula un vero e proprio certame con i rappresentanti dell’accusa. La tenacia nella difesa del proprio pensiero è riflesso del tentativo di condurre il dibattito sul piano di un’indagine razionale, di misurarsi alla pari, in ultima istanza, con i suoi giudici in materia di filosofia, ma lascia altresì pensare che Bruno non volesse (o non potesse) transigere su alcuni punti per lui fondamentali e tradire così la propria aspirazione ad una radicale riforma religiosa: il tentativo di ricondurre il Cristianesimo a favola morale.

Nel 1597, quando ormai il processo stava avviandosi, dopo la fase della censura dei testi bruniani reperibili e le conseguenti responsiones dell’imputato, alla sua successiva ed ultima fase, Giulio Monterenzi[6] fu incaricato di compilare un Sommario, un vero e proprio estratto riassuntivo degli atti, che fu dichiarato absolutum nella seduta del 16 Marzo 1598. Nella sua ricostruzione, Luigi Firpo suddivide analiticamente in tre gruppi i capi d’accusa contestati al Nolano. Il più corposo raggruppa tutta «la serie delle affermazioni libertine, le parole e i gesti irriverenti, le infrazioni disciplinari, i sintomi trapelanti del progetto riformatore vagheggiato dal Bruno sul terreno politico-religioso». Si tratta di tutte quelle «invettive contro il malgoverno della Chiesa e i frati “asini” e troppo ricchi, l’avversione generica al dogmatismo, il mancato rispetto ai Santi, alle reliquie e alle immagini, le mordaci critiche al breviario, l’indulgere al peccato della carne, l’abitudine alla bestemmia, le pratiche superstiziose»[7]. Il secondo gruppo è composto dalle imputazioni di portata strettamente teologica, che dalle false opinioni in materia di cristologia, passano a dissolvere il dogma della trinità, della divinità del Cristo, dell’incarnazione, della transustanziazione e della Messa, ed infine la negazione del peccato e dell’esigenza dell’espiazione; queste imputazioni già avevano assunto un ruolo determinante nei due processi giovanili subiti dal Bruno a Napoli[8] ed emergeranno di nuovo con prepotenza nello Spaccio. Il terzo gruppo di accuse riguarda infine le novità speculative della filosofia bruniana, un più vasto complesso di verità razionali e naturali, chiaramente in collisione con le verità di fede propugnate dal dogma cattolico. In questo ultimo gruppo vanno infatti inserite l’accusa di postulare molteplici ed infiniti mondi, quella di credere nella metempsicosi, e quella di attendere alla divinazione ed alla magia.

Circoscrivere il fenomeno del libertinismo cinquecentesco è operazione quanto mai ardua. Tuttavia, ad una rilettura del Sommario del processo bruniano, non si può non notare la notevole somiglianza delle imputazioni con ciò che sappiamo della tradizione “averroistica” italiana: sotto molti aspetti esso non è un unicum negli annali inquisitoriali, bensì «la ripetizione puntuale di alcuni processi anteriori di qualche secolo»[9]. Il che non obbliga a collocare Bruno sullo stesso piano dei precedenti pensatori libertini, ma consente di ricondurre una parte cospicua delle sue posizioni ad una fonte materialistica e naturalista nata e maturata in seno all’interpretazione eterodossa di Aristotele. Le dispute intorno all’esegesi aristotelica e la poderosa impresa di sistemazione tomistica del pensiero cristiano, avevano lasciato ampi margini in cui erano sorte ramificazioni teologiche e filosofiche assai poco ortodosse e poco monitorate. Sotto la cumulativa definizione di averroismo circolavano, sul finire del XVI secolo, i lineamenti fondamentali della miscredenza anticristiana. Nate in seno agli ambienti della cultura universitaria irradiante da Padova, queste tendenze avevano ricevuto una fortunata volgarizzazione ed una loro riduzione a miti capaci di penetrare largamente negli strati superiori della società. Spesso in contraddizione tra loro, le varie teorie libertine del Cinquecento presentavano forti variazioni anche nelle singole personalità, traendo ispirazione ora dal mobile serbatoio di secoli di eresie, ora poggiandosi su più solide basi razionalistiche, ora attingendo al platonismo, ora chiamando in causa Lucrezio ed Ovidio[10]; con il «sogghigno beffardo dell’altrui credulità», con il loro «ribellismo generico», il «fastidio di dogmi e regole morali», e il «gusto dello scandalo e dell’impertinenza»[11], puntavano ad una concreta erosione partendo dall’interno delle istituzioni stesse e operando simultaneamente come forza innovatrice e come forza conservatrice, bloccando gli sviluppi dell’avvenire.

Già Nicola Badaloni ha sottolineato come la partecipazione del Bruno alla polemica religiosa del secolo XVI sia da considerare essenzialmente in funzione di un interesse politico: nel prospettare un ritorno dell’uomo all’ordine ed alla religione naturali, egli non accetta la totale distruzione dell’esperienza cristiana, perché arriva a comprendere come un ritorno all’autentica condizione di natura non sia attuabile in una temperie di grandi contrasti come quella della sua epoca. Il concetto sarà sviluppato nello Spaccio, allorquando il percorso elaborativo si chiude in una contraddizione apparente, con il riconoscimento della necessità dell’esistenza di Chirone, simbolo del Cristo: «solo dopo che il savio abbia rotto ogni fede in lui»[12]. Dopo aver compreso la necessità politica di non credere, una minoranza di uomini liberati dalla fede religiosa dovrà assumere su di sé la responsabilità della guida degli altri, sfruttando però i sistemi di controllo e le garanzie istituzionali già esistenti. Nel suo viaggio in Francia, Bruno era andato maturando la propria preferenza per il cattolicesimo, proprio in virtù della possibilità che Santa Romana Chiesa ammettesse di nutrire al proprio interno «quel nucleo politico dirigente, che, appoggiandosi alla monarchia, sapesse dirigere lo Stato al di sopra di ogni fanatismo religioso»[13]: la gerarchia ecclesiastica diviene quindi nel progetto bruniano lo strumento più consono all’ organizzazione e alla gestione della vita associata, egli vede di qui scaturire la necessità per il Papa di rinunciare alle pretese di osservanza dell’ortodossia anche da parte degli intellettuali[14], un primo ineludibile passo verso quell’alleanza del potere politico e religioso nei confronti della quale egli doveva nutrire una tale profonda fiducia da indurlo a riconquistare una posizione d’osservatorio quasi privilegiato, a tornare in Italia.

Non ci si deve tuttavia stupire: nell’intersecarsi di libertinismo e polemica anticristiana, già dal XVI secolo «il libertino non è affatto contrario ad una struttura oligarchica ed autoritaria della società […] vuole solo che questa struttura autoritaria ed oligarchica venga usata nel modo che a lui sembra giusto, cioè come strumento del necessario dominio dei sapienti iniziati sul volgo credulone. Al limite non sarebbe contrario nemmeno al Papato; purché fosse un Papato strumento di libertini»[15]. In questa prospettiva, si comprende il progetto bruniano di ascendere le gerarchie ecclesiastiche, e, una volta entrato nel cuore operativo della Chiesa, piegare il Pontefice al proprio volere e, grazie alla rete capillare del clero, instaurare una nuova forma di culto religioso, orientata verso la tolleranza ed il “filantropismo”.

 

 

 

2. La scrittura cifrata e l’allegoria. Bruno tra Lutero ed Erasmo

 

La stesura del Candelaio si colloca presumibilmente nel punto mediano della retta che unisce cronologicamente le vicende dei due procedimenti giudiziari[16] subiti dal Nolano. Tutta la commedia è imbevuta del «fastidio per il mondo pazzo»[17] assunto come vera e propria insegna dall’autore che si definisce nel frontespizio all’edizione del 1582: «Academico di nulla Academia detto il Fastidito» e come «Academico di nulla Academia» e «Fastidito» parla di se stesso ben due volte nello svolgersi dell’azione, a commento di un sonetto e di un epitaffio:

l’Academico di nulla Academia in quell’odioso titolo e poema smarrito scrisse:

 

Don’a’ rapidi fiumi in su ritorno,

smuove de l’alto ciel l’aurate stelle,

fa sii giorno la notte, e nott’il giorno.

E la luna da l’orbe proprio svelle

E gli cangia in sinistro il destro corno,

e del mar l’onde ingonfia e fissa quelle.

Terr’, acqua, fuoco et aria despiuma,

et al voler uman fa cangiar piuma.

(Cand. I, 2, p. 59)[18]

Ed ancora l’Epitaffio di Giacopon Tansillo è così introdotto:

Scrisse un epitaffio, sopra la sepoltura di Giacopon Tansillo, il Fastidito:

Chi falla in appuntar primo bottone,

né mezzani né l’ultimo indovina:

però mia sorte canobbi a mattina

io che riposo morto Giacopone.

(Cand. V, 20, p. 381)

Si tratta di momenti autoreferenziali, di spazi ad inserto nel corpo della commedia in cui si concretizza, rispetto allo sdoppiamento tra Bruno auctor e Bruno agens nei panni di Gioan Bernardo pittore, la figura ulteriore del «Fastidito», il lato più autentico e sempre vigile dell’autore sulla propria opera[19]. Bruno ricorre ad un procedimento di verifica delle possibilità di argomentazione filosofica del metro anticipando la profonda valorizzazione della poesia che avrà luogo nei Furori. Ancora: il sonetto e l’epitaffio accennano alla possibilità umana di controllare la sorte e gli eventi in modo esplicito: «et al voler uman fa cangiar piuma» e «però mia sorte canobbi a mattina» non lasciano alcun dubbio che il controllo, la garanzia della comprensione del messaggio ed allo stesso tempo la dissimulazione sono gli imperativi che guidano la stesura del Candelaio. La scrittura libertina è caratterizzata da un fenomeno di scissione obbligatoria che l’autore deve operare tra i propri autentici intendimenti e le norme esterne sancite dall’ auctoritas letteraria e religiosa. Talvolta la fitta rete di riferimenti arriva a creare un vero e proprio sistema di significanti intelligibile soltanto agli “addetti ai lavori”, garantendo una patina protettiva anche alle posizioni più pericolose[20]. Il Candelaio è una «specie di tela» in cui non è immediata la distinzione tra l’«ordimento», (selezione e disposizione dei diversi argomenti), e la «tessitura», il complesso di rivolgimenti e riconoscimenti che regolano la comunicazione comica:

la materia, il suggetto, il modo et ordine e circonstanze di quella, vi dico che vi si farran presenti per ordine, e vi sarran poste avanti a gli occhi per ordine; il che è molto meglio che si per ordine vi fussero narrati: questa è una specie di tela, ch’ha l’ordimento e tessitura insieme; chi la può capir la capisca; chi la vuol intendere, l’intenda. Ma non lascierò per questo di avertirvi. (Cand. Proprol. p. 41)

A proposito della cultura e della scrittura libertina, Muresu parla di «scrittura cifrata»[21], ovvero di un codice in grado di mascherare al lettore superficiale o incolto eventuali deviazioni dall’ortodossia. In questa prospettiva, «ordimento» e «tessitura» altro non sono che il messaggio in codice ed il codice per interpretarlo.

Da rilevare inoltre è la sotterranea adesione ai modi della significazione allegorica adottati nell’esegesi testamentaria: tropi, analogie, anagogie fondano anche la chiave di lettura del Candelaio:

E pare ad voi ch’un suggetto come questo che vi si fa presente questa sera, non deve venir fuori e comparire con qualche privileggiata particularità? Un eteroclito babbuino, un natural coglione, un moral menchione, una bestia tropologica, un asino anagogico come questo, vel farrò degno d’un connestable, si non mel fate degno d’un bidello. (Cand. Bid., p. 55)

Sebbene trasposte in ambito comico, metafora, analogia, anagogia, tropologia riflettono la dipendenza bruniana dalle chiavi interpretative canonizzate dall’esegesi biblica, e l’impostazione “moralizzante” degli studi del frate domenicano. Travolte dalla furia espressiva dell’autore, dall’insistenza nel denudare e chiarire i referenti della comunicazione, esse restano strumenti utili all’esplicazione del vero (nella fattispecie del vero filosofico) che si cela sotto la lettera.

Lutero nel De servo arbitrio aveva condannato l’interpretazione retorica della Scrittura che Erasmo aveva salvato e continuava a difendere in vista di una conciliazione tra razionalità umana e mistero della parola divina. Secondo Lutero l’uso della metafora, ricorrente in Erasmo sulla scia dell’esempio negativo del Crisostomo e di Origene[22], ed il tentativo di adattare il significato assoluto del testo sacro alle esigenze ed alla debolezza conoscitiva dell’uomo, non rappresentavano solo la volontà mascherata di ricondurre alla natura dei testi umani una Parola che ha origine diversa, ma erano lo sforzo di piegare ai desideri della nostra ragione quello che è il decreto inviolabile della divinità, quali che siano i connotati con cui esso si presenta agli occhi degli uomini, «ché anzi tale decreto non poteva non apparire ingiusto ed irrazionale di fronte al mondo»[23]. Il dibattito portava come è noto alla netta separazione tra un Deus absconditus, chiuso nella sua inaccessibilità, ed un Deus indutus, revelatus, che ha parlato all’uomo rivestendo la propria inaccessibilità di un abito esteriore, ed in esso si è manifestato. Di qui l’accusa di Lutero all’esegesi che procede per tropi ed allegorie, in quanto il vizio intrinseco alla ratio umana senza alcun dubbio distorce il senso della Scrittura. Ad essa al contrario ci si deve avvicinare rimanendo fedeli alla lettera e ricorrendo al sensus communis. Sostenendo tale posizione Lutero faceva salva la radice sulla quale riposa l’insondabile progetto divino e l’impossibilità di declinare la fede in Cristo secondo la regola della ragione umana, lasciando integra la purezza del mistero. La rivelazione che in questo modo illumina il fedele conserva i caratteri del paradosso che riposa nel fondamento della fede stessa. Allo stesso modo per il Riformatore era impossibile conciliare l’indifferenza divina e l’utilità delle azioni umane. Concepire che l’uomo potesse in alcun modo compiere buone azioni significava limitare la potenza divina, dalla cui Grazia dipende ogni terrena manifestazione di carità e pietà. Era così impossibile colmare il baratro dell’inadeguatezza dell’uomo alla parola di Dio, impossibile pretendere di realizzare le umane virtù al di fuori dell’ambito della Rivelazione. Erasmo «era dunque un retore nel senso che ingannando volgeva ad un significato metaforico ciò che andava inteso in senso letterale ma questo non era che il procedimento della ragione umana e quindi della filosofia per piegare a se stessa, rendere a suo modo comprensibile ed agevole all’uomo ciò che l’uomo non poteva non sentire come opposto al mondo, duro da accettare e difficile da eseguire»[24].

Per Bruno le Scritture sono in primo luogo lo strumento con cui ordinare la vita morale degli uomini ignoranti, e a questo scopo esse si servono di un linguaggio comprensibile a tutti i livelli: questa comprensione e la capacità di operare che ne deriva sono i fondamenti della civiltà e la garanzia della sua conservazione. Di qui è chiara l’affermazione bruniana della Cena: sarebbe folle

uno che vuol dare a l’universo volgo la legge et forma di vivere, se usasse termini che le capisse lui solo et altri pochissimi, et venesse a far considerazione et caso, de materie indifferenti dal fine, a cui sono ordinate le leggi: certo parrebbe che lui non drizza la sua dottrina al generale et alla moltitudine per la quale sono ordinate quelle; ma a’ savvi, et generosi spirti, et quei che sono veramente uomini, li quali senza legge fanno quel che conviene[25].

La Scrittura è concepita dal Nolano, sulla scorta di Erasmo, come terreno di crescita e sviluppo dell’interpretazione allegorica. Postulando una radicale differenza tra legge e verità, ed operando conseguentemente una distinzione tra linguaggio della legge (e quindi della religione come lex) e linguaggio della verità, Bruno conferisce un senso nuovo alle forme dell’allegoria e della metafora ed al loro valore esegetico nell’approccio al testo sacro. Anche in questa posizione è facile riconoscere l’insegnamento di Erasmo: in netta opposizione al letteralismo luterano che sostituisce le parole ai sentimenti e privilegia i nomi rispetto alle «cose», Bruno si pronuncia per la conservazione di una chiave interpretativa che preservi l’uso del simbolo e dell’allegoria, individuando in essi lo strumento dell’ermeneutica fondamentale al suo scopo. Con il complesso sistema di analisi morale, naturale, tropologica ed anagogica, la religione cattolica conferma la necessità imprescindibile di una casta di interpreti dei segreti delle Scritture.

Il carattere “cifrato” della scrittura libertina afferisce in Bruno sia al livello linguistico, sia al livello contenutistico. Giovanni Aquilecchia, nella sua riflessione intorno alle motivazioni dell’adozione del volgare nei dialoghi londinesi del Bruno, esclude dalla sua attenzione le vicende del Candelaio[26], salvo poi attingere alla struttura «dialogico-teatrale»[27] della commedia per motivare alcuni dei luoghi più complessi degli stessi dialoghi londinesi. Lo studioso giunge a ipotizzare che il ricorso del Bruno al volgare coincida con la nascita di un nuovo pensiero e con la ricerca di un codice che si allontani il più possibile dalla tradizione «schiettamente scolastica»[28] Egli ritiene altresì che tale scelta derivi da un adeguamento politico e ideologico alla tendenza nazionalistica e antiumanistica che in Inghilterra, sotto la regina Elisabetta tentava un connubio tra «due correnti apparentemente estranee: la scientifico-popolare e la nazionale monarchica […]. Dal confluire di queste due forze, dal loro agire d’intesa» deriva «il trionfo delle lingue volgari come strumento di progresso culturale di carattere insieme nazionale, popolare, antiumanistico»[29]. Tuttavia l’esaltazione dello spirito nazionalista del popolo inglese va estesa anche alla politica culturale della Francia del XVI secolo[30], e coinvolge eventualmente anche le scelte operate dal Nolano intorno alla commedia nell’identica rete di accorgimenti politici riguardanti il lancio dell’opera, le concrete possibilità di diffusione, i destinatari. In questa prospettiva l’uso di un volgare così eterogeneo, così ibrido e farcito di dialettalismi pone molti interrogativi sul tipo di pubblico che la commedia avrebbe potuto individuare all’estero. Pur aderendo a questo programma di valorizzazione del volgare, Bruno non rinuncia in alcun modo a veicolare i fondamenti del proprio pensiero nascosti sotto la “cifra” della scrittura, assicurandosi un pubblico tra i conoscenti napoletani e ribadendo il carattere selettivo ed aristocratico del proprio messaggio.

 

 

 

3. Il sacro dissacrato nel Candelaio

 

Secondo Carmela Pesca-Cupolo, il linguaggio del sacro assume nella commedia la funzione di «complesso codice di comunicazione che regola le relazioni sociali e la vita privata: un appello continuo ad un multiforme ordine superiore, che rimane indiscutibile riparo, punto fisso di riferimento anche nella blasfemia»[31]. Bisogna tuttavia sottolineare che nel Candelaio il costante richiamo alla sfera del sacro, risponde al primo embrionale tentativo di imbastire una polemica anticristiana vera e propria: il codice cifrato è fatto della materia della polemica stessa, si compone di tutte le imprecazioni, le irrisioni, le distorsioni del dogma e delle pratiche del culto emerse nelle imputazioni meno gravi contro il Bruno, ma sotto questa irriverenza, all’apparenza riconducibile a certe suggestioni di matrice letteraria[32], il lettore scopre l’assai più pericolosa istanza di rifondazione dell’idea stessa di religione, di corpo sociale e di etica.

Analizzando dunque il complesso di anatemi ed imprecazioni che popolano la commedia, non si può non muovere da una considerazione di carattere quantitativo. Nell’Argomento, nel Proprologo, nel Prologo e nel Bidello, quasi non v’è alcun accenno ad imprecazioni blasfeme o a distorsioni parodistiche delle Scritture, e neppure si trovano fantasiose elaborazioni plebee di comuni luoghi del Breviario, o figure di santi ideate ad hoc per ogni occasione. La frequenza degli interventi di questo tipo segue un andamento proporzionale allo sviluppo cronologico dell’azione, raggiungendo l’acme nel quinto atto, nel paradossale elogio della prostituzione condotto dal mago Scaramuré. Quest’ultimo atto in particolare sorprende per la varietà ed il tipo di imprecazioni. Ecco dunque che sulla scena vengono invocati per lo più santi poco prestigiosi, santi liberatori dalle catene e dalla cattività, come S. Leonardo[33], contro la minaccia di essere portati in Vicaria o santi generosi come S. Martino[34], S. Rocco e S. Quintino. Se a S. Lucia si chiede l’illuminazione, molto più spesso i santi invocati hanno nomi inventati, la cui radice etimologica identifica la funzione cui sono preposti[35]: «san Manganello», «san Piantorio», «san Fregonio», «santa Temporina», «santa Scoppettella». Alcuni di essi sono di più difficile interpretazione, come «san Cuccufato» o «santa Raccasella»[36], altri ancora sembrano solo storpiature popolari dovute a semplificazioni di pronuncia, come nel caso di S. Pollonia. A questo ultimo gruppo di fenomeni sono assimilabili anche tutte le battute dei popolani della banda di Sanguino o della ruffiana Lucia che piegano in direzione comica e burlesca stralci dal Breviario, o dalla liturgia eucaristica (dall’«evangelio») o generaliter sacramentale. Si veda questo stralcio da un monologo di Marta:

Ieri feci dir la messa di Sant’Elia contra la siccità; questa mattina ho speso cinque altre grana de limosina per far celebrare quella di san Gioachimo et Anna, la quale è miracolosissima ad riunir il marito co la moglie. Si non è difetto di devozione dal canto del prete, io spero di ricevere la grazia; benché ne veggo mala vegilia: ché in loco di lasciar la fornace e venirme in camera, oggi è uscito più del dover di casa, che mi bisogna a questa ora di andarlo cercando. (Cand. IV, 9, p. 251)

La pratica di recitare ogni sorta di preghiere per vincere la ritrosia degli amanti è testimoniata dallo Spampanato[37], ma è chiaro che qui la «messa» «contra la siccità» ha un doppio fondo osceno. Molti ancora sono i richiami al mondo infernale, agli «angeli con la faccia cotta» (Cand. III, 7) ed a tutti gli attributi del culto della Vergine (S. Maria «delle Catenelle», «del Carmelo»), come accade nella celebre litania di Marta il cui schema ricalca una serie di scongiuri apotropaici:

Marta. – Iesus, santa Maria di Piedigrotta, vergine Maria del rosario, nostra Donna di Monte, santa Maria Appareta, advocata nostra di Scafata! Alleluia, alleluia, ogni male fuia. Per san Cosmo e Giuliano, ogni male fia lontano. Male, male, sfiglia sfiglia, và lontano mille miglia […] Salve, regina, guardane da ruina. Giesu auto et transi per medio milloro mibatte[38]. (Cand. IV, 8, p. 253)

Spergiuri, nenie, iterazioni immaginifiche di nomi di personaggi biblici che rifiutano drasticamente la ricerca di un dialogo con il mondo della fede in via di disfacimento sulla scena di Napoli. È vero che la città del Nolano è la città delle reliquie, della venerazione esasperata, degli amuleti e degli scongiuri, ma è anche la città della superstizione folle ed irrazionale, che il Bruno non avrebbe potuto esimersi dall’esecrare, se, come si pensa, al momento della stesura del Candelaio, egli aveva già saldi alcuni dei principi della sua «nova filosofia». La stessa feroce irrisione è riservata nella commedia al culto delle reliquie. Nella prima scena del primo atto Bonifacio parla della «benedetta coda de l’asino ch’adorano a Castello i Genoesi» (Cand. I, 1, p. 57), Gioan Bernardo irride il luto sapientiae di Cencio, trasformandolo nel «Luto della polvere delle potte sudate al viaggio di Piedigrotta» (Cand. I, 11, p. 103), e Ascanio, nel descrivere madonna Angela Spigna si lascia andare ad un vero e proprio elenco di false o presunte reliquie:

Chi vuol agnusdei; chi vuol granelli benedetti; chi vuol acqua di san Pietro Martire, la somenza di san Gianni, la manna di sant’Andrea, l’oglio dello grasso della midolla de le canne dell’ossa del corpo di san Piantorio; chi vuol attaccar un voto per aver buona ventura: vada a trovar madonna Angela Spigna. (Cand. V, 24, p. 405)

La posizione di Bruno intorno alle conseguenze ultraterrene della bestemmia emerge nel dibattito esplicito tra Bonifacio, l’ingenuo e stolto «candelaio» gabbato e l’astuto mago Scaramuré. Attraverso un procedimento assai comune nella scrittura e nel ragionamento del Bruno, il confronto tra un personaggio che si fa portavoce del valore in discussione ed un secondo personaggio vicino all’autore, si realizza quel rovesciamento di prospettiva che permette di individuare chiaramente il punto di vista del Nolano:

Scaramuré. – Oh, reniego…che mi vien voglia di toccar un de santi più grandi di Paradiso.

Bonifacio. – Chi, san Cristoforo? Uh, uh, uh...

Scaramuré. – Io dico non il più grande e grosso, ma un di que’ baroni; ma basta la litania de santi che ho detta all’ora, subbito che seppi questa cosa: ma in luoco di dire «Ora pro nobis», io li ho mandate tante biastemie a tutti (fuor ch’a san Leonardo, della cui grazia al presente abbiam bisogno) che si per ogni peccato io debbo star sette anni in purgatorio, solo per i peccati miei da due ore in cqua, bisogna ch’il giorno del Giudicio aspetti più di diece milia anni, prima che venga.

Bonifacio. – Fate errore a biastemare.

Scaramuré. – Che volete ch’io facesse considerando il vostro danno e disonore, e che par ch’io vi abbia affrontato, e che si questa cosa va avanti, possemo venire a termine di essere ruinati voi et io. (Cand. V, 17, p. 341)

Il caso avverso giustifica la ribellione blasfema, quindi. Secondo il tipico procedimento del rovesciamento, a sostenere le parti di un’osservanza bigotta e timorosa troviamo di nuovo Bonifacio, con le sue scontate obiezioni («fate errore a biastemare»), cui lo scaltro Scaramuré oppone la logica della rivolta, della protesta, il rifiuto dell’ubbidienza passiva ed acquiescente. Incolpare la divinità per la mala sorte diviene qui non già costume errato ed irriverente, ma procedura autorizzata dalla spinosità del caso. Il trattamento assai poco ortodosso riservato alle manifestazioni “fanatiche” del culto va quindi oltre il lazzo giocoso ed osceno, confermando già nel Candelaio la verità intesa nella delazione del Mocenigo: Bruno mostrava davvero di non tenere in alcuna considerazione il culto dei santi e delle reliquie[39]. Tuttavia nella polemica contro l’oscenità dominante è mescolato un fastidio più sottile, un dissidio che ancora non ha individuato una chiara via di espressione ma che di nuovo spicca in un confronto a due:

Marta. – Come vi sta la borsa?

Bonifacio. – Come il cervello di vostro Martino (volsi dir marito), quando la non ha carlini dentro[40].

Marta. – Io dico quella di sotto.

Bonifacio. – Gran mercè a vostra cortesia. Voi andate cercando il male come i medici: si voi vi potessimo remediare, vi farei intendere il come e quale; si volete della broda, andate a Santa Maria della Nova.

Marta. – Volete dir ch’io son cosa da frati, ser coglione?

Bonifacio. – Io ve dirrò d’avantaggio: voi siete cosa da cemiterio, per che una femina che passa trenta cinque anni, deve andar in pace, ideste in purgatorio a pregar Dio per i vivi.

Marta. – Questo niente manco doviamo dir noi femine di voi altri mariti.

Bonifacio. – Domineddio non ha cossì ordinato, perché ha fatto le femine per gli omini e non gli omini per le femine; e son state fatte per quel servizio: e quando non son buone a quello, fàccisen presente al povero diavolo, per ch’il mondo non le vuole. Ad altare scarrupato non s’accende candela; a scrigno sgangherato non si scrolla sacco. (Cand. IV, 8, p. 243)

Il modulo pretestuoso dello scatto misogino contiene una arbitraria interpretazione “maschilista” della creazione della donna nel racconto del Genesi[41]. La donna, in una prospettiva assolutamente utilitaristica, è stata creata nell’ottica miope di Bonifacio «per quel servizio», chiaramente perché l’uomo espletasse le proprie funzioni sessuali e procreative. La posizione riflette chiaramente la concezione cattolica della funzione sessuale e riduce grossolanamente i termini del rapporto tra i sessi[42]. Allo stesso tempo la critica si rivolge alla condotta assai licenziosa e dissoluta dei frati Minori Osservanti del convento di Santa Maria la Nova[43], ma è chiaro che il motivo è più che abusato nella letteratura coeva. In realtà le ultime battute di Bonifacio: «Ad altare scarrupato non s’accende candela; a scrigno sgangherato non si scrolla sacco»[44]. La scelta della sfera semantica del culto per rivestire una metafora oscena, si spiega forse come allusione alla riforma della religione che Bruno sembra avere assai chiaro fin dall’inizio delle sue peregrinazioni. L’altare «scarrupato», cioè la religione vecchia, e con essa la vecchiaia della civiltà stessa, va abbandonata per ritornare all’antica mitologia ed al culto eroico delle divinità civili di Roma.

Nell’atto quinto un dialogo tra Gioan Bernardo e Sanguino, capo della banda di malandrini travestito da Capitan Palma, primo dei tutori della giustizia nella «regalissima» città di Napoli, pone un problema doppio:

Gioan Bernardo. – Fate la giustizia, che Dio vi agiutarrà.

Sanguino. – Come quella d’un certo papa (non so se fusse stato papa Adriano), che vendeva i beneficii più presto facendone buon mercato che credenza: il quale era tutto il dì co le bilancie in mano per veder se i scudi eran di peso. Cossì farremo noi, e vedremo quanto ne viene a ciascuno. (Cand. V, 8, p. 305)

Come testimonia lo Spampanato il Bruno doveva sicuramente avere «sott’occhio» il Capitolo di Papa Adriano del Berni, o almeno ricordarlo[45]. Il capitolo è una lunga vituperatio contro un papa rigido, che era stato a capo dell’Inquisizione spagnola, condotta con toni a tratti violenti. Berni scriveva ancora entro un contesto umanistico[46], il controllo e le pressioni esercitati dalla Santa Sede erano scarsi e lasciavano ampi margini all’atmosfera gaudente della Roma papale. Eppure la violenza dell’invettiva sfiora moduli assai frequenti nella polemica bruniana: Adriano di Utrecht è definito «un sciagurato, ipocrito, pedante […] | un nato solamente per far dire | quanto pazzescamente la fortuna | abbia sopra di noi forza et ardire […] | un che, s’avesse in sé bontate alcuna, | doverebbe squartar chi l’ha condotto | alla sede papal ch’al mondo è una» (vv. 111-118)[47]. L’insinuazione bruniana che un certo Papa («non so se fusse stato papa Adriano») vendesse «i beneficii più presto facendone buon mercato che credenza», ricalca i versi 122-126 del Capitolo bernesco: «[…] e credo ch’egli abbi ordinato | di non dar via beneficî in credenza: | più presto ne farà miglior mercato | e perderanne inanzi qualche cosa, | pur che denar contanti gli sia dato» nonché i versi 151-156: «Io non so se sia’l vero quel c’ho inteso, | ch’e’ tasta ad un ad un tutti i denari | e guarda se’ducati son di peso; | or quei che non lo sa studii et impari, | ché la regola vera di giustizia | è far che la bilancia stia di pari»[48].

La giustizia amministrata dal pontefice in modo così oculato è giustizia economica e non giustizia spirituale, la bilancia di cui parla il Berni e che Bruno recupera, è la bilancia della Chiesa, ormai usata solo per pesare questioni di tipo amministrativo. È necessario tuttavia distinguere il vituperio del Berni, appartenente a tutti gli effetti a quell’entourage che dalla politica di ristrettezze di papa Adriano era stato penalizzato, dal particolare recupero bruniano. Nel Candelaio Sanguino afferma di applicare alla realtà rovesciata dalle scorribande dei barri proprio la giustizia privata di Adriano, la mera applicazione di un interesse privato nella vituperatio bernesca: «Cossì farremo noi, e vedremo quanto ne viene a ciascuno». Alla denuncia della venalità del clero nella figura emblematica di un Papa (paradossalmente il più parco del Rinascimento) ed alla sostituzione della giustizia spirituale con una forma di esercizio privato della forza, quella appunto di Sanguino e dei barri, Bruno ribadisce la possibilità del singolo di ribaltare l’ordine stabilito e di ripristinare la legge antica per una nuova società civile. Non possono in questa prospettiva sfuggire le pagine della cacciata di Cristo-Orione nello Spaccio:

«Vada presto» disse Minerva, «et in quel spacio succeda la Industria, L’Esercizio bellico et Arte militare, per cui si mantenga la patria pace et autoritade; si appugneno, vincano e riducano a vita civile et umana conversazione gli barbari; si annulleno gli culti. Religioni, sacrificii e leggi inumane, porcine, salvatiche e bestiali: per che ad effettuar questo tal volta per la moltitudine de vili ignoranti e scelerati, la quale prevale a nobili sapienti e veramente buoni che son pochi non basta la mia sapienza senza la punta de la mia lancia, per quanto cotali ribalderie son radicate, germogliate e moltiplicate al mondo»[49].

Il monopolio della forza soccorre necessariamente l’instaurazione di un nuovo ordine, prima con il rovesciamento di quello preesistente, poi con il mantenimento della nuova legge insediata in luogo della vecchia. Sanguino, Barra, Marca e gli altri sono i primi fautori del ristabilimento dell’ordine voluto dal Bruno, primi creatori di un giustizia terrena alternativa ad ogni giustizia celeste. Nel Candelaio la polemica contro la figura del Cristo non ha ancora conquistato una propria autonomia, ma trapela talvolta dalle pieghe della più diffusa irrisione dei suoi ministri e della morale cristiana: nello Spaccio Cristo è descritto come colui che «sa far de meraviglie, e […] può caminar sopra l’onde del mare senza infossarsi, senza bagnarsi gli piedi; e con questo conseguentemente potrà far molte altre belle gentilezze» ed è inoltre capace «de più grandi privilegi: cioè di que’ sopra naturali che dona la divinità, come questo di saltar sopra l’acqui, di far ballare i granchi, di far fare capriole a’ zoppi, far veder le talpe senza occhiali, et altre belle galanterie innumerabili»[50]. Sostituendosi all’ordine delle antiche religioni antropomorfe, la figura del Cristo, mago scaltro ed astuto, simile a tutti gli altri per natura ma inferiore per dignità e merito, è riuscita in virtù della sua «malignitade» a ribaltare le leggi di natura e a trasformare in obbligo ciò che scaturiva solo dalla sua brama di onore e di gloria. La sua impostura si è diffusa a macchia d’olio, sostenuta dall’incanto e dalla «fascinazione» operata dai miracoli. Già nella commedia compaiono alcuni accenni, seppure indiretti, all’impostura dei miracoli. Esplicitamente si pronuncia la ruffiana Lucia per irretire lo sciocco Bonifacio ed assicurare alla beffa il successo. Per giustificare il repentino mutamento nell’atteggiamento di Vittoria, la cortigiana amata dal «candelaio», Lucia dice:

Lucia. – Voi sapete che dove troppo cresce il desio, suol altretanto indebolirsi la speranza; e forse ancora la gran novità e mutazione che vede in se medesma, gli fa per il simile suspettar mutazion dal canto vostro. Chi vede un miracolo, facilmente ne crede un altro. (Cand. IV, 6, p. 235)

Estrapolato dal contesto, l’adagio che chiude la battuta è lungi dal rispecchiare la fede del credente; al contrario, nell’ordine rovesciato che presiede all’inganno, il dubbio fasullo dell’amor di Bonifacio imbastito nella commedia, è insieme il dubbio della corresponsione amorosa e «la suspizion delle persone del mondo» (Cand. IV, 6, p. 237), cui bisogna rimediare con l’impostura. Attraverso uno slittamento di piani il miracolo dell’amore di Vittoria diviene trionfo della credulità di Bonifacio, proprio come i miracoli e le guarigioni operate dal Cristo altro non sono che manifestazione di una potenza occulta e maligna[51]. Con l’astuzia e l’inganno egli ha fatto credere all’umanità d’essere figlio di Dio. La credulità di Bonifacio che sta per essere smascherata è l’ingenuità umana figlia dell’ignoranza, che Orione ha innalzato a «più bella scienza del mondo». All’affermazione della perizia magica di Gesù, svelata nel corso del Candelaio dalla più generale polemica contro l’alchimia e la falsa sapienza, si aggiunge una più radicale critica dell’insegnamento evangelico del perdono delle offese ricevute, e più in generale del messaggio d’amore e tolleranza impartito dal Cristo. La comunione nel peccato che contrassegna tutta l’umanità e pone su un piano di uguaglianza ogni individuo in quanto peccatore annichilisce ogni tentativo di elevazione e di giudizio. Bonifacio, invocando protezione e misericordia presso Sanguino e la sua banda risoluti a punirlo con una bella dose di manganellate, afferma:

Bonifacio. – Io vi priego, abbiate compassion di me e non entriate in còlera; e ricordatevi che tutti siamo peccatori et avemo bisogno della misericordia di Dio, il quale ne promette tante misericordie quante noi ne facciamo ad altri. […] Si tutti li errori si castigassero, in che consisterrebbe la misericordia? (Cand. V, 18, pp. 351-3)

Si vedrà dunque che il mondo morale della commedia è diviso in due settori: coloro che si muovono in una logica strettamente cristiana, e coloro che invece sono più aperti a suggestioni diverse, in parte per necessità legate alla sopravvivenza, in parte per maggiore consapevolezza etica e civile. Coloro che intravedono la pagliuzza nell’occhio dell’altro, e non vedono la trave nel proprio, sono colpevoli d’arroganza agli occhi di Dio, cui è affidato il giudizio finale. Fedele alla riabilitazione della funzione terrena della giustizia e della legge, Bruno lascia tuttavia che alcuni dei suoi personaggi si ammoniscano usando i termini della parabola evangelica. Consalvo e Bartolomeo, entrambi vittime del raggiro di Cencio, che aveva sottratto loro il pulvis Christi (in realtà polvere d’oro finissima), legati insieme nel laccio della comune stoltezza e credulità, non smettono di accusarsi reciprocamente e l’alchimista ad un tratto afferma: «I travi non ti danno fastidio, ma sì ben il pelo» (Cand. V, 13, p. 327). Essi sembrano quindi ancora in sintonia con il detto evangelico. Nel dialogo tra Gioan Bernardo e Carubina, il pittore portavoce del poeta è parte egli stesso della beffa inscenata. Egli incita la giovane donna a ripagare con la stessa moneta il marito traditore, a lasciarsi andare in altri termini alle gioie dell’amore. Tuttavia la giovane risponde in modo timorato seguendo l’imperativo evangelico: poco importa l’offesa subita, essa non è causa sufficiente ad autorizzare nel fedele una reazione uguale e contraria. Nell’ottica bruniana un tale asservimento non può non simboleggiare debolezza ed acquiescenza:

Gioan Bernardo. – Vedi, ben mio, che gran torto fa questo pazzacone a vostre divine bellezze: non vi par giusto che egli sii pagato della medesma moneta?

Carubina. – Si lui non fa quel che gli conviene, io non debbo far il simile.

Gioan Bernardo. – Farrete, cor mio, quel che conviene, quando non farrete altro che quello che farrebbe ogni altra persona di giudicio e sentimento che vive in terra. Voglio, ben mio, che sappiate che questi che lo tengono non sono birri, ma certi compagnoni galant’omini miei amici: per li quali lo farremo trattare come a noi piace. Ora dimorarrà llà; e tra tanto che questi fingono altri negocii, prima che menarlo in Vicaria, andarrà un certo messer Scaramurè, il quale fingerrà di acordar questa cosa: con questo, che si umilii a noi, che siamo stati da lui offesi, e che doni qualche cortesia a questi compagni; non perché loro si curino di questo, ma per far la cosa più verisimile: e vostra Signoria non verrà a perdere cosa alcuna. (Cand. V, 11, p. 319)

Messa a parte dell’inganno, della “commedia nella commedia”, solo ora Carubina può aderire alla nuova logica della punizione perpetrata ai danni di suo marito, una logica che prevede di comminare una pena proporzionale al danno ricevuto, con l’aggravante della connivenza di un grappolo di briganti travestiti da tutori dell’ordine pubblico. L’adesione di Carubina al progetto, e ad un altro livello la comprensione della giustizia fondante di questa scelta, sanciscono il passaggio di un personaggio dall’una all’altra delle due dimensioni solo in apparenza impermeabili[52]. Il personaggio di Carubina è forse l’unico carattere della commedia a vivere un certo processo evolutivo. In maniera esplicita il pittore confiderà ad Ascanio di aver potuto godere della giovane (Cand. V, 19, p. 377) e questo passo costituisce una sorta di iniziazione ad una nuova morale. La stessa Carubina, all’inizio disorientata, dichiara di aver compreso la logica insita ai movimenti sulla scena:

Carubina. – Io mi accorgo che voi siete troppo scaltrito, che avete saputo tessere tutta questa tela: io comprendo adesso molte cose. (Cand. V, 11, p. 320)

Alla fine il nuovo verbum bruniano avrà la meglio sulla timida ritrosia della giovane, sancendo una volta per tutte il trionfo dell’iniziativa intraprendente svincolata da ogni inibizione.

 

 

 

4. La parodia del «perdono dell’altrui offese»

 

Più oltre la parodia del «perdono delle altrui offese» si innesta nella effettiva sceneggiata della confessione di Bonifacio che occupa la lunghissima scena ventitreesima del quinto atto. Valendosi di un espediente stilistico assai frequentato nel Candelaio, Bruno incarica Ascanio, sovente voce narrante lontana dal movimento concitato dell’azione, di raccontare un apologo a sfondo religioso, che mescola i tratti colorati della devozione popolare ad un meno esplicito intento parodistico:

Ascanio. – […] Tal volta quel che si concepe in un momento si retien per sempre. A don Paulino, curato di Santa Primma, che è in un villaggio presso Nola, Sipion Savolino un vener santo confessò tutti suoi peccati: da quali, quantumque grandi e molti, per essergli compare, senza troppa difficultà fu assoluto. Questo bastò per una volta: per che ne gli anni seguenti poi senza tante paroli e circonstanze diceva Sipione a don Paulino: «Padre mio, gli peccati di oggi fa l’anno voi le sapete»; e don Paulino rispondeva a Sipione: «Figlio, tu sai l’assoluzione d’ oggi fa l’anno: vadde in pacio et non amplio peccare». (Cand. V, 19, p. 377)

Secondo la ricostruzione storica e biografica dello Spampanato[53], «Sipione Savolino» altri non era che lo zio materno del Bruno, ed i riferimenti alla chiesa di Santa Primma, ed alla stessa città di Nola, immergono l’aneddoto in una atmosfera domestica e leggera. La sbrigativa assoluzione dei peccati «quantumque grandi e molti», da parte di «don Paulino» costituisce irrefutabilmente una ragione di sincero divertimento del Nolano. Nella mescolanza di domesticità e quotidiane pratiche devozionali, l’attenzione del Bruno si concentra sull’inutile iterazione della confessione, dell’assoluzione e dell’espiazione dei peccati[54]. Più generalmente il pensiero bruniano emancipa l’iniziativa e le azioni umane dal terrore del peccato. Nello Spaccio l’idea della punizione infernale verrà condannata come una delle invenzioni con cui il Cristo ha saputo sottomettere l’umanità mediante il terrore della morte. Con la enunciazione della teoria dei preadamiti, inoltre, Bruno scardina anche la genetica corruzione dell’uomo, il peccato originale, prospettando l’inutilità di una punizione ultraterrena e l’esistenza dell’inferno come luogo di eterna espiazione. Nel Candelaio, Bruno si limita a tratteggiare l’indifferenza degli dei alle azioni umane, ancora una volta attraverso la voce di Gioan Bernardo:

Carubina. – Sii che si vogli de gli omini, che dirrete in conspetto de gli angeli e de’santi, che vedeno il tutto, e ne giudicano?

Gioan Bernardo. – Questi non vogliono esser veduti più di quel che si fan vedere; non vogliono esser temuti più di quel che si fan temere; non vogliono esser conosciuti più di quel che si fan conoscere. (Cand. V, 11, p. 323)

La separazione della sfera divina da quella umana è totale, in quanto colta nel suo momento principale, quello dell’amministrazione della giustizia. Gli dei nel Candelaio sono indifferenti, relegati in una sfera che allo stesso tempo è limite dell’uomo e libertà intrinseca al limite stesso. Tale indifferenza sarà approfondita nello Spaccio. A Momo, preoccupato che il Cristo nelle vesti di Orione possa sostituirsi a Giove, Minerva risponderà:

Non so, o Momo, con che senso tu dici queste paroli, doni questi consegli, metti in campo queste cautele: penso ch’il parlar tuo è ironico, perché non ti stimo tanto pazzo che possi pensar che gli dèi mendicano con queste povertadi la riputazione appresso gli uomini; e (quanto a questi impostori) che la falsa reputazion loro la quale è fondata sopra l’ignoranza e bestialità de chiumque le riputa e stima, sia lor onore più presto che confirmazione della loro indignità e sommo vituperio. Importa a l’occhio della divinità e presidente verità, che uno sia buono e degno, benché nessuno de mortali lo conosca[55].

Questo accade all’interno di un progetto in cui il regno di Dio è accettato da Bruno solo se radicalmente subordinato ad un grado superiore di conoscenza: già nel Candelaio la conoscenza superiore di Gioan Bernardo è la chiave per accedere ad un sistema di valori più alto di quello propugnato dal Cristianesimo. La messa in scena del pentimento di Bonifacio davanti ai furfanti travestiti da birri è il ristabilimento della vera giustizia in un mondo, quello della scena comica, in cui la legge ha assunto i caratteri della follia; è in definitiva la realizzazione di un disegno di riforma.

Anticipate dall’arringa di Scaramuré in favore della prostituzione e della liceità della frequentazione di cortigiane, la confessione, il perdono e la pubblica assoluzione avvengono in forma esclusivamente laica al cospetto di una banda di birboni in vesti di giudici e delle parti offese. A commentare l’aneddoto di Ascanio intorno alla confessione Gioan Bernardo riserva per sé un monologo che occupa tutta la scena:

Scrisse un epitafio, sopra la sepoltura di Giacopon Tansillo, il Fastidito; che sonava in questa foggia:

Chi falla in appuntar primo bottone,

né mezzani né l’ultimo indovina:

però mia sorte canobbi a mattina

io che riposo morto Giacopone.

Il primo bottone che appuntò messer Bonifacio fuor della sua greffa, fu l’inamorarsi di Vittoria; il .II. fu l’averse fatto dar ad intendere che messer Scaramuré, co l’arte magica, facesse uscire Satanasso da catene, venir le donne per l’aria volando llà dove piacesse a lui, et altre cose assai fuor dell’ordinario corso naturale. Da cqua tutti gli altri svariamenti sono accaduti l’uno dopo l’altro, come figli e figli de figli, nipoti e nipoti di nipoti. Altro non manca adesso ch’appuntar la stringa et assestar la bracchetta col gippone: il che si farrà, chiedendo lui mercé e misericordia per l’offesa fatta a noi poveri innocenti. (Cand. V, 20, p. 381)

L’epitaffio del «Fastidito» sulla tomba del Tansillo ribadisce in termini nuovi la possibilità dell’uomo di conoscere la propria sorte creando con la forza dell’intelletto e delle mani le condizioni favorevoli al dispiegarsi dell’occasione propizia, cogliendola al volo e incanalando la propria esistenza nelle fenditure lasciate dal caso, in armonia con la natura. L’errore di Bonifacio, cui inesorabilmente sono seguiti tutti gli altri «come figli e figli de figli, nipoti e nipoti di nipoti», è stato quello di pretendere di operare «fuor de l’ordinario corso naturale», nella fattispecie ricorrendo all’«arte magica» per realizzare il proprio capriccio. L’errore, reso visivamente con la metafora felice dell’«appuntar primo bottone» può essere espiato soltanto «chiedendo lui mercè e misericordia per l’offesa fatta a noi poveri innocenti». La malizia di Gioan Bernardo si svela qui con chiarezza: egli ha pilotato la vicenda di Bonifacio sfruttando la debolezza intrinseca al capriccio dell’infatuazione, punendo una volta per tutte la dabbenaggine e la follia dell’uomo arrogante ed ora confessando la propria responsabilità nella messa in scena dell’ultimo atto della “commedia nella commedia”.

Legato, malmenato, offeso, Bonifacio impetra pietà a chiunque incontri sulla sua strada e feroce è il commento di Barra: «Tutto il mondo è re e papa alla devozion di costui, solamente in questa occasione. Si Dio li farrà grazia, apresso farà un casocavallo a tutti». Il tono è tagliente, Bruno disprezza la profusione di implorazioni e richieste di perdono, di misericordia e grazia. È una esplicita condanna della boria e della presunzione di chi non ha mai dubitato di poter volgere il corso della fortuna nel proprio sordido esclusivo interesse e la dimostrazione pratica che solo l’individuo eccellente sa come operare per ripristinare l’ordine nel caos dominante, senza mai prescindere dall’interesse pubblico che rappresenta. Tuttavia la maggior parte degli uomini vive in una condizione di incoscienza:

Barra. – è gran cosa il mondo: altri sempre fanno errori e mai fanno la penitenza, per quel che si vede; altri la hanno dopo molti errori; altri vi accappano nel primo; altri ancor non han peccato, che ne portano la pena; altri suffriscono senza peccato; altri la portano per gli peccati altrui. In quest’uomo, si ben si considera, tutte queste specie sono congionte insieme. (Cand. V, 23, p. 393)

La condizione del peccato è ancora inscindibile dalla vita umana, ma non è intrinseca all’uomo stesso: vi sono uomini che non peccano eppure sono puniti in vece di altri, vi sono altresì uomini che «suffriscono senza peccato». Bonifacio ha sintetizzato in sé tutte le possibili forme del peccato: ha peccato nelle intenzioni in quanto ha desiderato la donna d’altri, ma non nei fatti, in quanto è giaciuto con la propria moglie, tuttavia è stato catturato immediatamente, ed il giudizio su di lui si è spostato dal piano privato a quello pubblico. Inoltre allo stesso giudizio, per la cura di Gioan Bernardo, si è sottratta madonna Carubina, colpevole effettivamente di adulterio. Il tribunale presieduto da Sanguino punirà la stolta innocenza e non condannerà affatto la colpevolezza sagace. Questo è il paradosso strutturale su cui si dispone la polemica libertina del Bruno nei confronti del peccato, della confessione, del perdono, in una mescolanza di liturgico e profano che attinge alle figure neotestamentarie del buon Ladrone, della Maddalena e di Barabba per gettare discredito sulla misericordia dell’intervento divino:

Bonifacio. – Io vi dimando mercé e grazia: la vi supplico che mi concediate come il signor nostro Giesu Cristo al bon latrone, alla Madalena.

Barra. – Cazzo, che buon latrone è costui: quando voi sarrete buon latrone come colui che rubbò il paradiso, come da nostro Signore vi si farrà misericordia. Voi siete un ladro che togliete quel che è di vostra moglie, e lo donate ad altre: il suo latte, il suo liquore, la sua manna, la sua sustanza et il suo bene.

Gioan Bernardo. – E la mia persona, e la mia barba, e la mia biscappa, e forse il mio onore per quel che può aver fatto[56].

Barra. – Però non so se gli de’ perdonare como a buon latrone. Più tosto come alla Madalena[57].

Corcovizzo. – Vedete che gentil Madalena: che gli vada il cancaro a lui e le quattrocento piattole che deve aver nel bosco dell’una e l’altra barba. Vedete che precioso unguento va spargendo costui: per mia fé non gli manc’altro che la gonna, per farlo Madalena. Io dico che se gli de’ perdonare come i Giudei perdonorno a Barrabam[58]. […].

Scaramuré. – Io vi priego che gli perdonate; e lui vi priega ancora, come vedete, in ginocchioni: o sia in nome de Dio o in nome del diavolo; o come a Barrabam o come a Dimas[59]. (Cand. V, 23, pp. 393-5)

La disquisizione può sembrare accessoria ad un primo sguardo, ma ad una lettura meno superficiale traspaiono subito i termini di una diversificazione delle forme di perdono. Innanzitutto è necessaria una distinzione della causa agente. Nel caso del Ladrone e della Maddalena il perdono ha una origine divina, mentre nel caso di Barabba il giudizio in ultimo appello è affidato alla folla. In altri termini perdonare «come alla Madalena» significa avere pietà del peccatore sinceramente pentito, e perdonare «come a Dimas» sottintende che il pentimento sia avvenuto in extremis, ed intensifica agli occhi dell’uomo la misericordia divina. Il perdono concesso a Barabba, peccatore non pentito, è allo steso tempo frutto di una decisione popolare, non ha radici divine e non è presieduto neppure dall’autorità della giustizia terrena: Pilato ha lasciato che il popolo decidesse del futuro del peccatore e del figlio di Dio. Nella prospettiva bruniana non c’è alcuna differenza tra le due forme del perdono, la misericordia divina viene posta sullo stesso piano della decisione di una folla inferocita: che ci sia o meno vero pentimento è fattore del tutto secondario: «o sia in nome de Dio o in nome del diavolo; o come a Barrabam o come a Dimas». Da una polemica contro l’inutilità di reiterare un sacramento inutile, Bruno passa a svalutare la radice stessa della misericordia divina, l’amore incondizionato che Dio nutre per l’uomo e che lo induce al perdono misericordioso. È il simultaneo svilimento della condizione genetica del peccato e del “rimedio” fasullo escogitato dal cristianesimo per la sua remissione.

Riprendendo il passo evangelico[60], Bruno assimila subitamente il pentimento e l’impegno di non più errare, la contritio cordis di Bonifacio alle preghiere della partoriente, («Ecco cqua il pentimento di donna quando figlia, ecco il proponimento di donna quando infanta») che, dimentica del ruolo a lei assegnato dalla natura promette a se stessa che mai più darà alla luce un figlio. Promesse vane, ma non in virtù delle gioie della sperimentata maternità, al contrario per l’istintuale pulsione al coito, «per non dar vacuo in natura». Gli appetiti sessuali hanno il potere di vanificare la parola data in entrambe le situazioni:

Barra. – Le donne quando sono a i dolori del parto, dicono: «Mai mai mai più; adesso vi fermo a chiave: marito traditore, si me ti accostarai, t’ucciderrò; certissimo ti stracciarrò co i denti». Non tanto presto poi ch’è uscita quella creatura, per non dar vacuo in natura, vuoleno per ogni modo che v’entri l’altra. Ecco cqua il pentimento di donna quando figlia, ecco il proponimento di donna quando infanta. (Cand. V, 23, p. 397)

Bonifacio implora ed ottiene il perdono della moglie messa a parte da Gioan Bernardo dell’umiliazione che i barri e Scaramuré hanno riservato al marito traditore. Di buon grado accetta di perdonare il marito non senza averlo a sua volta tradito con il pittore. Dal canto suo Gioan Bernardo si veste dei panni del «cristiano» e «buon catolico», ed accetta di somministrare il proprio perdono al peccatore, purchè sia fatto salvo il suo onore:

Gioan Bernardo. – Messer Bonifacio, io son cristiano, e fo professione di buon catolico. Io mi confesso generalmente, e comunico tutte le feste principali dell’anno. La mia arte è di depengere, e donar a gli occhi de mundani la imagine di nostro Signore, di nostra Madonna, e d’altri santi di paradiso. Però il core non mi comporta, vedendoti mosso a penitenzia, di non perdonarti, e farti quella rimessione che ogni pio e buon cristiano è ubligato di fare in casi simili: per tanto Iddio ti perdoni in cielo, et io ti perdono in terra. (Cand. V, 23, p. 399)

L’equilibrio non può essere ristabilito, la professione di fede del pittore non è altro che un elemento della messa in scena, proprio come uno degli accessori che hanno trasformato Carubina in Vittoria e Bonifacio in Gioan Bernardo. Il perdono delle «altrui offese» non è frutto dell’adesione piena al messaggio del Cristo, bensì macchinazione dell’uomo al fine di ristabilire gli equilibri interni alla sfera del vivere civile. La giustizia stessa, amministrata da furfanti “galantuomini” esula dalla sfera divina per occupare di nuovo il proprio posto in terra. La proclamazione con cui Gioan Bernardo solennemente dichiara la propria fasulla fede in Cristo diventerà più tardi la ritrattazione con cui Giove, nella conclusione dello Spaccio, stornerà da sé ogni potenziale accusa di anticristianesimo:

Abbia detto io medesimo contra Chirone qualsivoglia proposito, al presente io mi ritratto e dico che: per esser Chirone centauro uomo giustissimo, che un tempo abitò nel monte Pelia […], sanando infermi, mostrando come si montava verso le stelle, […] non mi par indegno del cielo. Appresso ne lo giudico degnissimo, perché in questo tempio celeste, appresso questo altare a cui assiste, non è altro sacerdote che lui: il qual vedete con quella offrenda bestia in mano, e con un libatorio fiasco appeso a la cintura. E perché l’altare, il fano, l’oratorio è necessariissimo, e questo sarrebe vano senza l’administrante, però qua viva, qua rimagna, e qua persevere eterno, se non dispone altrimente il fato[61].

 

 

 

5. Una nuova concezione dell’onore: il Candelaio e il primo coro dell’Aminta

 

L’assenso di Gioan Bernardo al perdono di Bonifacio viene concesso, come si è visto, solo a condizione che egli confessi eventuali crimini commessi sotto false spoglie, al fine di restituire immacolato l’onore al personaggio privato della propria identità. Al termine della “remissione” del peccato, il pittore afferma:

Una cosa solamente mi riservo (per che è scritto «Honoren meom nemini tabbo»): che si sotto questo abito avessi commesso altro delitto, che vi apparecchiate ad farne tutte reparazione; e questo lo promettete al signor capitano come ministro della giustizia, ad me avanti vostra moglie, messer Scaramuré e questi altri compagni. (Cand. V, 23, p. 399)

Ci sono motivi per credere che l’appello apparentemente accorato nasconda una ulteriore irrisione, questa volta del senso dell’onore. Lo stesso Gioan Bernardo aveva sostenuto poco prima una concezione opposta di tale valore da sempre individuato come uno dei fondamenti sociali indispensabili alla convivenza civile. La posizione del pittore emerge chiaramente come poco ortodossa e recupera illustri precedenti in quel ramo della produzione letteraria cinquecentesca attraversato da forti inquietudini e scetticismi in materia di fede. Nel suo tentativo di sedurre madonna Carubina, egli afferma:

Onore non è altro che una stima, una riputazione: però sta semper intatto l’onore, quando la stima e riputazione persevera la medesma. Onore è la buona opinione che altri abbiano di noi: mentre persevera questa, persevera l’onore. E non è quel che noi siamo e quel [che] noi facciamo, che ne rendi onorati o disonorati, ma sì ben quel che altri stimano e pensano di noi. (Cand. V, 11, p. 323)

Alla base della riforma immaginata da Bruno si trova l’esigenza di sanare la contraddizione estrema, quella tra «essenza ed apparenza»[62], origine del disordine e della crisi della civiltà. Gioan Bernardo separa nettamente i piani, dimostrando che mantenere saldo il proprio onore, asse portante della morale medievale e rinascimentale, altro non è che un’operazione di scissione dell’essenza dall’apparenza. Fatta salva quest’ultima, poco importa alla società «quel che noi siamo e quel che noi facciamo». Tuttavia la portata rivoluzionaria dell’affermazione non si esaurisce nella pura constatazione di un dato di fatto, al contrario si dilata nell’incitamento al tradimento, sempre nel rispetto delle apparenze e quindi nella tutela dell’onore. La voce libertina del Bruno non si limita ad un compiacimento per la furbizia maliziosa di Gioan Bernardo, ma denuncia una situazione di crisi, analogamente a quanto farà l’Ozio nello Spaccio:

Non udite come a questi tempi, tardi accorgendosi il mondo di suoi mali piange quel secolo nel quale col mio governo mantenevo gaio e contento il geno umano, e con alte voci e lamenti abomina il secolo presente, in cui la Sollecitudine et industriosa Fatica, conturbando, si dice moderar il tutto, con sprone dell’ambizioso Onore?

All’arringa segue la citazione dal primo coro dell’Aminta (I, 656-81):

O bella età de l’oro

non già perché di latte

sen’corse il fiume, e stillò mèle il bosco;

non perché i frutti loro

dier da l’arato intatte

le terre, e gli angui errar senz’ira e tòsco;

non perché nuvol fosco

non spiegò allor suo velo;

e’n primavera eterna,

ch’ora s’accende e verna,

rise di luce e di sereno il cielo;

né portò peregrino

o guerra o merce a l’altrui lidi il pino:

ma sol perché quel vano

nome senza soggetto,

quel idolo d’error, idol d’inganno,

quel che dal volgo insano

onor poscia fu detto,

che di nostra natura il feo tiranno,

non meschiava il suo affanno

fra le liete dolcezze

de l’amoroso gregge;

né fu sua dura legge

nota a quell’alme in libertate avezze,

ma legge aurea e felice

che Natura scolpì: S’ei piace, ei lice[63].

La fattispecie dell’onore come «tiranno» «di nostra natura», è sposata dal Bruno nello Spaccio, non bisogna dimenticarlo, in una prospettiva rovesciata che non può esaurirsi nell’adesione ad un’etica opposta a quella dell’onore e della virtù. Il pensiero «libero e spregiudicato» del Tasso, «denso di richiami pagani ed epicurei, incline a mimetizzarsi ma non a scomparire del tutto nel territorio della poesia cristiana»[64], si inserisce, nel dialogo bruniano, nella più generale polemica contro l’Ozio. L’apologia dell’inerzia connaturata alla condizione “precivile” dell’uomo, si colloca sullo stesso piano del discorso della Fortuna: all’uguaglianza ed alla felicità originaria di tutti gli uomini si contrappongono le «disuguaglianze ed ingiustizie prodotte dall’opera solerte della «Sollecitudine» e dell’«industriosa Fatica che ha perturbato gli secoli, ha messo in scisma il mondo, e l’ha condotto ad un’etade ferrigna lutosa e argillosa, avendo posti gli popoli in ruota et in certa vertigine e precipizio dopo che l’ha sullevati in superbia et amor di novità e libidine de l’onore e gloria d’un particolare»[65]. In questa luce, la celebrazione dell’Età dell’Oro viene a coincidere con l’indiscriminata uniformità auspicata dalla Fortuna: l’uguaglianza assoluta annulla l’irripetibile originalità di ogni vicenda individuale. Se nell’Aminta l’onore è freno e principio moderatore dei piaceri d’amore, nello Spaccio, e presumibilmente nel Candelaio, l’onore assume una connotazione decisamente «civile», confermata, del resto dall’attributo «ambizioso». Nell’universo bucolico dell’Aminta la Natura appariva in un certo qual modo addomesticata dall’ospite uomo e la convivenza civile era strutturata in una sorta di felice “comune” regolata dalle leggi dell’amore[66], dalla quale la figura del Satiro veniva definitivamente espulsa. Lì la grandezza era in absentia, la libertà istintuale e amorosa dell’uomo si realizzava in altri termini nella sua condizione di totale libertà da qualsiasi vincolo sociale e culturale. Nel Candelaio Bruno non dimentica il legame tra l’amore e l’onore e ridefinisce la funzione sociale dell’onore proprio in un contesto di seduzione. Da «tiranno» esso diviene la «buona opinione», la platonica dóxa. La sfera semantica esclude una scelta inconsapevole del lemma, e suggerisce esplicitamente un rimando alla teoria platonica dei gradi della conoscenza. Nel V libro della Repubblica, Platone pone come perfettamente conoscibile solo ciò che è massimamente essere, mentre il non-essere è definito come radicalmente inconoscibile. Tuttavia esiste anche una realtà intermedia tra l’essere e il non-essere, definita come sensibile, soggetta a divenire e caratterizzata da un livello di conoscenza intermedio tra scienza e ignoranza, appunto la dóxa, l’opinione[67]. L’opinione, tuttavia, per Platone è quasi sempre fallace. Anche qualora essa fosse verace e retta, essa non potrebbe mai avere in sé la garanzia della propria correttezza e resterebbe sempre labile, in diretta dipendenza dal mondo sensibile cui essa si riferisce. L’opinione stessa, come la scienza (epistéme), si divide in due gradi, la mera immaginazione (eikasía) e la credenza (pístis). Poiché, come si è detto, ciascun grado e forma di conoscenza ha un corrispettivo grado e forma di realtà e di essere, l’eíkasia e la pístis corrispondono ai due gradi del sensibile e si riferiscono la prima alle ombre ed alle immagini sensibili delle cose, la seconda alle cose e agli oggetti sensibili stessi[68]. Gli uomini comuni, secondo la teoria platonica si fermano ai primi due gradi della conoscenza, cioè all’opinare, mentre solo il filosofo accede alla suprema conoscenza (nóesis). Dopo averlo ridotto a nient’altro che «una stima, una riputazione» e ancora ad «opinione», Bruno colloca l’onore al livello platonico della conoscenza fallace, totalmente estranea alla vera sapienza, alla percezione del vero, e quindi rovescia un presupposto morale fondante non inneggiando, come Tasso, all’amore istintuale, bensì cogliendo la restrizione ideologica nella sua forma etica e civile, in ultima analisi politica. In questa luce acquisisce una forte valenza politica anche l’asserzione ingenua e presuntuosa di Bonifacio che svela i procedimenti attraverso i quali l’opinione (e quindi l’onore), figlia della sorte, «madre di pazzi», costruisce le barriere ed i privilegi che regolano la convivenza civile:

Bonifacio – […] Ve dirrò, messer Bartolomeo: alle buone riuscite ogn’un sa trovar quella raggione che già mai vi fu; ancor ch’io maneggi miei affari con furia di porco selvatico, e mi succedon bene, ogn’un dirà «Costui ha bel discorso, ha saputo prender il capo del negocio cossì e cossì, et ha ben fatto». Per il contrario, dopo’ ch’io arrò compassato i miei negocii con quante filosofie giamai abbiano avuto que’ barbiferi mascalzon di Grecia e de l’Egitto, si per disgrazia la cosa non accade a proposito, ogn’un mi chiamarà balordo. Si la cosa passa bene, «Chi l’ha fatto, chi l’ha fatto?»: «Il gran consiglio pariggino»; si la va male, «Chi l’ha fatto, chi l’ha fatto?»: «La furia francesa». Oltre, «Per che questo, per che?»: «Per conseglio di Spagna»; «Perché, perché?»: «Per l’alta e lunga spagnola». «Chi ha guadagnato e mantiene tanti bei paesi ne L’Istria, Dalmazia, Grecia, nel Adriatico mare e Gallia Cisalpina? chi orna Italia, l’Europa et il mondo tutto di una tanta republica a nisciun modo serva?»: «Il maturo conseglio vineziano»; «Chi ha perso Cipri, chi l’ha perso?»: «La coglioneria di que’ magnifici, la avarizia di que’ messeri Pantaloni». All’ora dumque si fa conto del giudizio, et è lodato, quando la sorte et il successo è buono. (Cand. IV, 5, pp. 227-9)

Nel discorso di Bonifacio l’opinione comune non si fonda su considerazioni analitiche, prescinde pressocché completamente dalle «filosofie» di «que’ barbiferi mascalzon di Grecia e de l’Egitto» ovvero dalla «furia di porco selvatico»: il movente iniziale non è considerato affatto nella valutazione di un determinato esito. Il divario essenziale tra essenza e apparenza invade la sfera del rapporto causa-effetto, e va ad incrementare la situazione di crisi dominante la società. Nella commedia è già stretto il nesso tra fortuna, onore, apparenza e crisi della società, e che sarà alla base dello spirito di rifondazione dello Spaccio.

 

 

 

6. Per una rifondazione morale: l’elogio paradossale della prostituzione

 

Ascrivibile alla generale riprovazione della communis opinio è ancora l’elogio paradossale della prostituzione condotto dal mago Scaramuré in difesa del tradimento di Bonifacio, in cui la polemica libertina sfocia in un chiaro intento di rifondazione delle regole della convivenza civile. La formula umanistica del paradosso, condotta sullo schema della dimostrazione sistematica di un assunto contrario all’opinione comune, conserva i caratteri del lusus letterario in ambito colto, peculiari al genere fin dalla classicità. In Bruno tuttavia la critica della communis opinio evidenzia in modo peculiare le potenzialità distruttive nei confronti dei pilastri culturali e sociali dominanti[69]:

Scaramuré. – Vostra Signoria sa che in Italia non è come in certi paesi oltramontani dove (o sii per la freddezza di quelli, o sii per gran zelo delle povere anime, o per sordida avarizia di quei che administrano la giustizia) sono perseguitati que’ che vanno a cortiggiane. Cqua, come in Napoli, Roma e Venezia, che di tutte sorte di nobiltà son fonte e specchio al mondo tuto, non solamente son permesse le puttane, o corteggiane come vogliam dire…

Sanguino. – Mi par vedere che costui loda le tre città per esservi bordelli et esserno copiose di puttane: questo paradosso non è degli ultimi.

Scaramuré. La priego che mi ascolti. Non solamente, dico, son permesse, tanto secondo le leggi civili e municipali, ma ancora sono instituiti i bordelli, come fussero claustri di professe.

Sanguino. – Ah! ah! ah! ah! questa è bella: or mai vorrà costui che sii uno degli 400 maggiori, o degli quattro Ordini minori; e per un bisogno, vi instituirrà la abbatessa, ah! ah! (Cand. V, 18, p. 353-5)

L’appello alle tre città più ricche e potenti del secondo Cinquecento «di tutte sorte di nobiltà» «fonte e specchio al mondo tuto» è un appello all’Italia intera e la prostituzione è assunta paradossalmente come manifestazione della superiorità della civiltà italiana in opposizione ai «barbari», in virtù di una superiore tolleranza e di una superiore legislazione (a tutela giurisdizionale ed economica di un vizio sociale). Si tratta di un’anticipazione di quella che sarà la contrapposizione nodale del paradosso: quella tra civiltà e barbarie, tra legge giusta e legge ingiusta. Sanguino esplicita immediatamente il genere di ragionamento praticato dal suo interlocutore, («questo paradosso non è degli ultimi») ed assume l’attitudine dell’ascolto bonario ed indulgente nonostante la delicata situazione in cui si trova il “prigioniero” Bonifacio: le divagazioni, la lungaggine e lo sproloquio di Scaramuré, caratteristiche inconfondibili della scrittura comica, sono recepite come programmatiche e quindi tollerate. Nella complessa situazione dell’intreccio, Scaramuré e Sanguino sono complici responsabili dello spauracchio del «candelaio» borioso, tra i due si instaura una volta ancora un linguaggio in codice che individua lo spazio anche per un lusus intellettuale. Significativo è il fatto che una volta di più i personaggi plebei del Candelaio mostrino una preparazione adeguata a cogliere l’esercizio retorico di alto livello, tipico delle forme del divertimento aristocratico, mentre ai detentori della cultura tradizionale Bruno riserva un sarcasmo tagliente, risate amare ed aspettative frustrate. L’elogio paradossale, pur mantenendo la fisionomia umanistica del gratuito esercizio letterario e retorico, emancipa il suo messaggio dall’intrattenimento fine a se stesso e viene recuperato come strumento di satira morale e di costume. Sulla scia dell’antecedente dei Paradossi, cioè sentenze fuori del comun parere di Ortensio Lando[70], Bruno sfrutta la propria formazione erudita per costruire il paradosso nel pieno rispetto delle regole di genere. Tuttavia la spinta pragmatica di cui tutta la commedia è imbevuta non consente l’attardarsi compiaciuto nell’esplorazione del repertorio mitologico o erudito dei classici: i paralleli vengono strutturati sull’esperienza reale, le città chiamate in causa appartengono alla contemporaneità sociale del Nolano; in altre parole i molteplici exempla paradossali del Lando[71] in Bruno si esauriscono sopraffatti dall’argomentazione etica, giuridica e sociale. Trascurando gli accumuli elogiativi del tutto accessori, ed il rovesciamento surreale tipico della scrittura burlesca, Bruno si limita a trasfondere nella forma dell’elogio paradossale un aspetto del sociale ritratto nella sua effettiva incidenza. Attraverso una dimostrazione sistematica, l’entità di cui si celebrano le benemerenze (in questo caso una consuetudine condannata dal dogma cattolico) ha il potere di trasformare la realtà nel suo contrario, operando l’inversione dal segno negativo al positivo. Per Bruno alla radice dell’elogio paradossale c’è il desiderio, nascosto sotto il riso, di creare nuove possibilità, di opporre alla realtà immobile e refrattaria, un riscatto simbolico, una vera redenzione del basso mossa da spinte ideologiche fortissime. La nuova visione del reale vede la nobilitazione di un elemento indegno, censurabile e nefasto, ma non attraverso un processo lineare. Dopo aver stabilito la legittimità della professione delle «corteggiane», i cui bordelli sono istituiti come «claustri di professe»[72], a significare in altri termini la tutela legale («secondo le leggi civili e municipali») stabilita dalle città in cui sono situati, il discorso slitta dal piano giuridico a quello socioeconomico.

Scaramuré. – Di grazia ascoltatemi: cqui in Napoli abbiamo la Piazetta, il Fundaco del Cetrangolo, il Borgo di Santo Antonio, una contrada presso Santa Maria del Carmino. In Roma, perché erano disperse, nell’anno 1569 sua Santità ordinò che tutte si riducessero in uno, sotto pena della frusta: e li destinò una contrada determinata, la quale di notte si fermava a chiave; il che fece non già per vedere il conto suo circa quel ch’appartiene alla gabella, ma acciò si potessero distinguere dalle donne oneste, e non venessero ad contaminarle. Di Venezia non parlo: dove per magnanimità e liberalità della illustrissima Republica (sii che si voglia di alcuni particulari messeri arcinfanfali clarissimi, che per un bezzo si farrebbono castrare, per parlar onestamente) ivi le puttane sono esempte da ogni aggravio; e son manco soggette a leggi che gli altri: quantumque ve ne siino tante (per che le cittadi più grandi e più illustre più ne abondano) che bastarebbono in poco anni, pagando un poco di gabella, ad far un altro tesoro in Venezia. Certo se il Senato volesse umiliarsi un poco a far come gli altri, si farrebbe non poco più ricco di quel ch’è: ma per che è detto «in sudore vultui tui» e non «in sudore delle povere potte», si astengono di farlo. Oltre che, alle prefate puttane portano grandissimo rispetto, come appare per certa ordinanza novamente fatta sotto grave pena, che non sii persona nobile o ignobile, di qualunche grado e condizion ch’ella sii, ch’abbia ardire di ingiuriarle e dirgli improperii e villanie: il che mai si fe’ per altra sorte di donne… (Cand. V, 18, pp. 355 s.)

Le prostitute, sebbene talora relegate in quartieri speciali, fermati «a chiave» durante la notte come accade a Roma, godono tuttavia di notevoli privilegi fiscali e giuridici. Esse vengono allontanate dalle altre donne per poterle «distinguere dalle donne oneste», e per non «contaminarle». Sottile è il riferimento alla necessità di istituire una discriminante tra cortigiane e «donne oneste», altrimenti indistinguibili, date le dimensioni che il fenomeno della prostituzione aveva assunto nel Cinquecento. Allo sguardo smaliziato del Bruno le cortigiane appaiono come degne dei migliori rispetti, non c’è persona «nobile o ignobile, di qualunche grado e condizion ch’ella sii, ch’abbia ardire di ingiuriarle e dirgli improperii e villanie». Esse assurgono ad un livello superiore a tutte le altre donne, e in questa tolleranza benevola, l’Italia individua la propria superiorità nei confronti degli altri paesi:

Scaramuré. – Concludo, signor, che in queste tre città consiste la vera grandezza di tutta Italia: per che la prima di quell’altre tutte che restano, è di gran lunga inferiore a l’ultima di queste. (Cand. V, 18, p. 359)

Garantiti dunque gli «ordinamenti» «statuti» e «leggi» ad hoc per la prostituzione, tutelati dalla legge devono essere anche coloro che frequentano le cortigiane, o quanto meno la giustizia deve chiudere un occhio nel loro particolare caso, in quanto, e qui Bruno si ricollega alla radicale opposizione essenza/apparenza, perseguire il frequentatore di bordelli significa metterne in pericolo l’onore di fronte al resto del corpo sociale:

Scaramuré. – E però consequentemente non si toglie facultà a persone di andare a corteggiane, e non son persequitate dalla giustizia […] e non solamente questo; ma ancora gelosissimamente la giustizia si astiene di procedere, perseguitare e comprendere quelli che vanno a donne di onore: per che considerano i nostri principi essere cose da barbari di prendere le corna che un gentil omo, un di stima e di qualche riputazione abbia in petto, et attaccarglile nella fronte. Però, sii l’atto notorio quanto si voglia, non si suol procedere contra: eccetto quando la parte (la qual semper suol essere di vilissima condizione) non si vergogna di farne instanzia. Quanto alle parte onorate, la giustizia verrebbe a farli grandissimo torto et ingiuria; per che non contrapesa il castigo che si dà a colui che pianta le corna, et il vituperio che viene a fare ad un personaggio, facendo la sua vergogna publica e notoria a gli occhi di tutto il mondo: sì che è maggior l’offesa che patisce da la giustizia, che del delinquente; e ben che nientemanco il mondo tutto lo sapesse, tutta via sempre le corna con l’atto de la giustizia divengono più sollenne e gloriose. (Cand. V, 18, p. 361)

La giustizia dissimulatrice è la giustizia che tutela l’onore, la giustizia che, in ultima analisi, non permette lo scollamento dell’essenza dall’apparenza col «prendere le corna che un gentil omo, un di stima e di qualche riputazione abbia in petto, et attaccarglile nella fronte». Nella prospettiva rovesciata dell’elogio paradossale, emerge la visione libertina: l’elogio della prostituzione è il pretesto per ribadire la disintegrazione dell’onore come fondamento della civile convivenza; questa verità è manifesta agli occhi di tutti. Ancora, l’onore è esecrato come causa delle faide tra privati cittadini, obbligati in qualche modo a riabilitare la propria situazione dopo lo scacco subito:

Ogn’uomo dumque capace di giudicio considera che questo dissimular che fa la giustizia, impedisce molti inconvenienti: per che un cornuto e svergognato coperto (se pur un tale può esser ditto cornuto o svergognato, di cui l’esistimazione non è corrotta), per téma di non essere discoperto, o per minor cura ch’abbia di quelle corna che nisciun le vede (le quali in fatto son nulla), si astiene di far quella vendetta: la qual sarrebbe ubligato secondo il mondo di fare, quando il caso a molti è manifesto. La consuetudine dunque d’Italia et altri non barbari paesi, dove le corna non vanno a buon mercato, non solamente comporta e dissimula tali eccessi, ma anco si forza di coprirli: onde in certo modo son da lodare quei che permettono i bordelli, per li quali si ripara a massimi inconvenienti, che possono accadere in nostre parti… (Cand. V, 18, p. 361)

In sintesi: il paradosso formale cela la critica libertina del Bruno al peso della reputazione nella conduzione dei rapporti tra privati cittadini e nel pubblico. Alla amministrazione della giustizia contribuisce una giusta tutela di ogni aspetto del reale che sappia scoraggiare ogni interesse privato, facies del caos e della crisi della società. Il Candelaio svela la frattura tra essere ed apparire. Il nesso istituito dal paradosso bruniano si configura quindi come condanna etica non tanto del libero costume, quanto piuttosto dell’ipocrisia che lo maschera e lo asseconda.


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[1] Firpo (1993, 156). Qui come altrove i corsivi sono nostri.

[2] Corsano (1940, 275-94). Dalle stesse posizioni procedono anche altri lavori, in particolare si veda Ciliberto (1990) e Id. (19922). È necessario premettere che religione e civiltà sono concetti non chiaramente separabili in Bruno, il quale tende alla fusione ad un livello istituzionale di credo religioso inteso nel suo momento normativo e di applicazione diretta della giustizia alla vita associata.

[3] Secondo il Corsano la riforma bruniana del Cristianesimo prevedeva: «una generale revisione teologica che avrebbe lasciato ben poco dell’organismo dommatico della fede, negando egli la sostenibilità del dogma trinitario, dell’incarnazione, della verginità di Maria, della transustanziazione, della responsabilità oltremondana dei peccati (esclusa dalla peregrinazione delle anime), del peccato originale». Ancora essa prevedeva: «Una riforma disciplinare con l’abolizione del celibato ecclesiastico e degli ordini religiosi […]. Un riconoscimento della necessaria funzione della prassi liturgica, a condizione che si riconoscesse l’altrettanto seria e pura e legittima indole delle pratiche magico-teurgiche, condannatissime dalla Chiesa […]. Un cattolicesimo quindi, che si potrebbe dire scristianizzato, antiascetico, antidommatico, tollerante, disposto a sostituire il merito proveniente dalla fede e dalle opere di pietà e di rinunzia, colla franca accettazione del merito verso la natura e delle esigenze dell’irresistibile potenza della natura, manifestatesi soprattutto attraverso la generazione» (Corsano 1940, 293).

[4] Spini (1985, 58). Queste note tengono conto in varia misura anche di Id. (1980) e di Ingegno (1985).

[5] Della personalità di questo celebre personaggio e delle circostanze che portarono alla sua denuncia ed alla condanna come eretico «relasso, impenitente e pertinace», lo stesso Firpo fornisce un’accurata ricostruzione. Si veda in particolare Firpo (1993, 42-9).

[6] Nato nel 1550 a Bologna, Giulio Monterenzi era quivi divenuto Dottore dei diritti. Si sa che tra il 1559 e il 1603 fu Consultore e in seguito anche Procuratore fiscale del Sant’Uffizio e tra il 1610 e il 1618 ricoprì la carica di Governatore di Roma. Dal 1618 fu Vescovo di Faenza e morì nel 1623 mentre si trovava a Ferrara in qualità di vicelegato. Questi scarni dati si devono a Reiner Decker e sono stati resi noti in un recente intervento in occasione di un Symposium dal titolo Die römischen Kongregationen von Inquisition und Index und die Wissenskulturen der Neuzeit tenutosi all’Università di Frankfurt il 18 Maggio 2000. Dall’intervento, il cui titolo è Nascita e diffusione dell’istruttoria processuale della curia romana contro le streghe, emerge un giurista, che «come governatore di Roma era a capo del tribunale di ultima istanza, a cui faceva riferimento lo stato della Chiesa o come minimo la sua metropoli e che, prima della sua nomina, aveva palesemente acquisito dei meriti come collaboratore del Santo Offizio». In particolare il Monterenzi sembra essersi distinto, nel corso del triennio 1593-1595, in cui già era Consultore della Suprema Corte, per la redazione di un’instructio esemplare per i casi di processi contro le streghe, che divenne a tutti gli effetti normativa, e quindi da riprendersi oggettivamente nella conduzione di tutti i procedimenti simili. Questa avrebbe dovuto essere trasmessa ai suoi vicari e successori. Perito di stregoneria ed eresia, fu ritenuto quindi a tutti gli effetti il naturale e più eminente rappresentante la pubblica accusa anche nel procedimento bruniano. Dagli atti emerge che questo «iuris utriusque doctor, procurator fiscalis Sancti Officii», «ricavò dalla disordinata esposizione offerta dalla prima lettera del Mocenigo non meno di 12 capi d’accusa contro il Nolano, qualcuno di più di quanti ne aveva raccolti tre anni prima il Filonardi, suo predecessore, nel compilare gli articoli del Fisco per le ripetizioni». Il sommario da lui redatto fu pubblicato per la prima volta da Mons. Angelo Mercati nel 1549. La dotta ricostruzione del religioso era però inficiata da intensa passione apologetica, tesa a dimostrare come «solo per legittimi motivi di ortodossia, per reali mancanze punibili del Bruno l’Inquisizione di Roma portò alla conclusione il processo contro di lui» (Mercati 1942, 12) e infine che «la Chiesa poteva, doveva intervenire e intervenne». I documenti del processo dimostravano per il Mercati  «la legalità di esso e l’onestà con cui venne condotto» (ivi, 13). La ragione della condanna non andava individuata quindi nei giudici, bensì nell’imputato. Luigi Firpo, nella sua disamina dei documenti del processo dimostra una comprensione superiore a quella dell’allora Prefetto dell’Archivio Vaticano, pur tuttavia per nulla avara di riconoscimenti a questi, come puntuale nella segnalazione degli errori dello stesso e dei suoi predecessori negli studi bruniani. Questi temi vengono trattati in modo approfondito in Quaglioni (1993, IX-XXII).

[7] Firpo (1993, 88 s.).

[8] Ancora, nel terzo costituto, interrogato sui motivi della sua seconda causa, Bruno afferma «Io non saprei imaginarmi de che articoli mi processassero, se non è che, ragionando un giorno con Mont’Alcino, che era un frate del nostro ordine, lombardo, in presenzia di alcuni padri, e dicendo egli che questi eretici erano ignoranti e che non avevano termini scolastici, diss’io che si bene non procedevano nelle loro dechiarazioni scolasticamente, che dechiaravano però la loro intenzione comodamente […] dando l’essempio della forma dell’eresia di Ario» (ivi, 164).

[9] Lo Spini riferisce in particolar modo le vicende processuali che nel 1457 avevano visto coinvolto tale dottor Zanino da Sòlcia, averroista «arrestato in Lombardia per aver ripetuto, come Cecco d’Ascoli, che Cristo era morto per influenza degli astri e non per salvare l’umanità, che il cristianesimo stava per essere soppiantato fra breve da altra “legge”, che Dio creò gli uomini prima di Adamo ed altri mondi prima del nostro; che infine la morale cristiana, specialmente sul terreno dell’etica sessuale, doveva essere abbandonata in nome dell’esaltazione dell’istinto naturale» (Spini 1985, p. 75). Nel 1497, poi, era stato processato a Bologna un altro averroista, Gabriele da Salò «assertore anch’egli della teoria della prossima sostituzione del cristianesimo con una nuova “legge”. Non contento di questo il medico di Salò aggiungeva che i miracoli di Cristo erano meri fenomeni naturali, che la nascita di Gesù era stata anch’essa affatto naturale, che la vita del Cristo era stata quella di un emerito imbroglione e si era chiusa giustamente con una condanna a morte» (ivi, 22). Importante inoltre è segnalare il precedente illustre di Gerolamo Cardano, nei cui scritti, secondo lo Spini «si avverte continuamente l’eco delle dottrine averroiste sulla religione come “lex” […], oppure l’influsso dell’aristotelismo eterodosso con la negazione dell’immortalità dell’anima e con il suo rigido determinismo naturalistico, unitamente al retaggio dell’astrologia medievale e alle elucubrazioni sull’oroscopo di Cristo» (ivi, 24).

[10] Durante i primi secoli dell’era cristiana la fortuna di Ovidio aveva attraversato periodi di forte declino, a causa della resistenza insuperabile che sembrava opporre a qualunque tentativo di interpretazione teologico-filosofica. Ma il frivolo Ovidio venne considerato un immenso serbatoio di verità sacrosante da molti interpreti in frammentari tentativi di moralizzazione delle Metamorfosi lungo tutto il Medioevo, che culminano in uno sterminato poema conosciuto come Ovide moralisé, composto presumibilmente all’inixio del XIV secolo da un anonimo, identificato ora con Filippo di Vitry, vescovo di Meaux, ora con Chretien Legouais de Sainte-More. Egli riesce attraverso il suo lavoro interpretativo a rintracciare nel poema ovidiano l’intera dottrina cristiana ed addirittura un simbolico accenno alla stessa Bibbia. Diana è la Trinità, Atteone Gesù Cristo, Fetonte una rappresentazione simbolica di Lucifero e della sua ribellione a Dio. Cerere errabonda alla ricerca di Proserpina è La Chiesa  che tenta di ricondurre all’ovile le anime traviate dei peccatori e le torce che tiene in mano sono Antico e Nuovo Testamento (si veda Ovide moralisé, I, 4099-150; III, 635-43; I, 4225-60; V, 3041-144).

[11] Spini (1985, 13).

[12] Badaloni (1988, 128).

[13] Badaloni (1988, 129).

[14] Si veda tra tutti il caso di Francesco Patrizi da Cherso, di cui Bruno certamente seguì le vicende, intellettuale «lontano da inclinazioni riformate», in grado di rivendicare spazi autonomi e di affermare «implicitamente percorsi diversificati fra filosofia e teologia: un atteggiamento che nei decenni successivi si sarebbe consolidato entro un sistema di pensiero occultamente eretico e essenzialmente indifferente ad ogni credo rivelato» (Corsaro 1997, 249-77). Sugli esiti eretici del pensiero di questo intellettuale: Firpo (1950, 150-73); Gregory (1953); A. Rotondò (1973, 1449-60); Bolzoni (1981, 285-96).

[15] Spini (1980, 119).

[16] Si è visto quanta parte ebbero negli otto anni del processo veneto e romano (1592-1600) i due processi subiti dal Bruno in Napoli appena prima dell’inizio del suo vagabondaggio di esule per l’Europa.

[17] N. Borsellino (1974, 204).

[18] Per il testo della commedia ci si serve in questa sede dell’edizione critica curata da G. Aquilecchia per Les Belles Lettres (1993). Per il commento si tiene conto delle due ottime edizioni curate da V. Spampanato, qui rispettivamente: Spampanato (1909) e Spampanato (1923).

[19] Non a caso il sonetto e l’epitaffio sono collocati l’uno in incipite alla seconda scena del primo atto e l’altro nel corpo dell’ultimo monologo della commedia (Cand. V. 20, p. 381), a stabilire i limiti spaziali e temporali ed i confini dello sguardo bruniano che abbraccia l’intera trama, guidandola ad un esito preordinato e di forte pregnanza ideologica.

[20] Spini (1980, 121): «Certamente le correnti libertine erano costrette a muoversi nell’ombra a passi felpati e parlare un ermetico gergo allusivo […]. Più di uno di quei filosofi o medici che celavano idee anticristiane di stampo naturalistico sotto il loro irto gergo aristotelico, erano l’equivalente di ciò che oggi chiamiamo “barone della cattedra”».

[21] «In primo luogo l’uso da parte dei libertini di una scrittura cifrata» è da interpretare «come conseguenza della scissione, da molti di essi apertamente teorizzata, tra un comportamento esteriore pienamente adeguato alle convinzioni vigenti e i più genuini convincimenti interiori, fondati su scelte radicalmente eterodosse e anticonformiste» (Muresu 1986, 903 s.).

[22] Origene, Contra Celsum, I, 13: «Paolo ci mostra che secondo l’intendimento della dottrina cristiana è molto meglio accettare gli argomenti della fede con l’aiuto della ragione e della sapienza, piuttosto che con l’aiuto della semplice fede, e ce lo mostra dicendo: “Poiché infatti il mondo non seppe conoscere Dio nelle manifestazioni della sapienza divina, piacque a Dio di salvare i credenti mediante la stoltezza della predicazione”». Bruno, coinvolgendo sia Origene sia il suo avversario Lutero nella medesima polemica contro la decadenza, mostra che la sua critica è rivolta a tutta la tradizione cristiana ed alla totale uniformità del peccato dell’umanità intera, riscattata e redenta solo tramite il dono divino della Grazia.

[23] Ingegno (1985, 22).

[24] Ingegno (1985, 27).

[25] La cena de le ceneri, in Dialoghi filosofici italiani, p. 324.

[26] «Il genere letterario cui il Candelaio appartiene non ci autorizza a proporci per esso un problema analogo a quello che legittimamente s’impone, invece, riguardo ai dialoghi filosofici scritti in volgare. Il forte colorito della commedia ben s’adegua, del resto all’inconfondibile atmosfera ambientale (napoletana) delle scene in essa ritratte, mentre l’esplicito intento antipedantesco (antiumanistico quindi) si rivela come uno dei fulcri ideali sui quali poggia la stessa commedia» (Aquilecchia 1953, 165).

[27] Aquilecchia (1953, 166).

[28] Aquilecchia (1953, 167).

[29] Aquilecchia (1953, 174).

[30] Aquilecchia (1953, 182): «A Parigi […] Bruno soggiornò per una quindicina di mesi, tra la fine del 1581 e i primi mesi del 1583. In questo periodo egli fu introdotto presso Enrico III entrando a far parte di quel gruppo dei lecteurs royaux al cui orientamento verso un nuovo metodo di insegnamento non era estranea, come si è visto, l’accettazione del volgare, in sostituzione del latino, particolarmente per i corsi di matematica e geometria. A Parigi, insomma, Bruno si era schierato con le correnti progressive della cultura, appoggiate dalla monarchia nazionale e operanti in aperto contrasto con lo sterile conformismo della Sorbonne».

[31] «All’autorità troppo lontana, inaccessibile e “regalissima”, si sostituisce» nel Candelaio, «l’autorità delle immagini religiose trapiantate nella quotidianità: il vuoto di valori sembra essere compensato da un eccesso di simboli, la mancanza di civitas da una normativa spontanea» (Pesca-Cupolo 1998, 11).

[32] «Le reminescenze aretiniane si infoltiscono lungo tutta la commedia, e qui siamo in piena atmosfera bernesca o aretiniana […] anzi, il procedimento del Bruno ripete la formula del Berni e dei berneschi di capovolgimento dell’iconografia e del linguaggio in un’opera di distruzione […] dall’interno, fino all’accostamento grottesco, al gioco di parole, all’equivoco osceno che ad un certo punto si unisce con un acre accenno di irriverenza religiosa […] in una volontà di esprimere una sfrenata rivolta contro ogni ordine, ogni convenzione – di qui, per coerenza di ricerca di autorizzazioni letterarie, il rifarsi al Berni e all’Aretino» (Barberi Squarotti 1960, 49).

[33] «Sanguino. – […] O ben mio, si non fussimo in piazza, non mi terrebono le catene di Santo Leonardo, ch’io non ti piantasse un bacio a quelle labbra che mi fan morire» (Cand. II, 5, p. 139). Per le invocazioni di questo santo si veda ancora Cand. V, 7, p. 303; e V, 18, p. 371.

[34] «Lucia. – Giuro per quel santo che diè la mittà della sua cappa per l’amor de Dio, che da dovero rammollareste un diamante, tanto avete il sangue dolce» (Cand. V, 2, p. 287).

[35] «S. Manganello, al pari di altri santi nominati nel Cand., – Temporina, Raccasella, Fregonio, Piantorio, Cuccufato e Scoppettella, – credo che il B. li abbia uditi dal popolo che anche oggi si compiace, in simili canonizzazioni, di seguire liberamente la propria fantasia, e di sdrucciolare e dire cose meno che convenienti. Certo osceno è il significato di Piantorio, Fregonio, se non di altri» (Spampanato 1923, 144).

[36] Interessante sarebbe approfondire le indagini etimologiche su tutti i nomi bizzarri disseminati nella commedia. S. Raccasella è ad esempio riconducibile ad una radice dialettale raca (napoletano racca) documentata dal Battaglia come «generico disprezzo; maledizione», usato anche come esclamazione. Gridare o dire raca a qualcuno significherebbe quindi «criticarlo, biasimarlo ferocemente». (Adattamento dell’aramaico rêquâ: ‘vuotezza’, tramite il gr. Neotestamentario rakà ‘stupido’: cfr. Matthaeus 5, 22; «qui autem dixerit fratri suo, raca: reus erit concilio» e Dante, De vulgari eloquentia, I-22. «Racha, racha quid nunc personat tuba novissimi Frederici». In aggiunta il dizionario etimologico dei dialetti italiani UTET documenta una voce racà nell’accezione anche figurata di ‘vomitare’, ‘sputare’. Per quel che riguarda invece il nome Cuccufato, è facile individuare nella radice il sostantivo cucco, anticamente sinonimo di ‘sciocco’, ‘balordo’, forse sostenuto ulteriormente dal francese cocu: ‘cornuto’.

[37] Spampanato (1923, 133).

[38] Sono rese irriconoscibili le parole di Luca IV, 30: «Ipse, autem, transiens per medium illorum, ibat», Le quali, come suggerisce lo Spampanato nella nota al luogo, «si credeva avessero efficacia nel guarire del “mal maestro”, non meno di scongiuri contro la terzana e la quartana o contro la tosse» (Spampanato 1923, 136).

[39] Rinvio di nuovo a Firpo (1993, 14 ss.).

[40] Per nulla ozioso pare soffermarsi sul lapsus di Bonifacio. Nel vivace botta e risposta tra il vanesio burlato e Marta si addensano ingiurie che ricalcano le fila classiche della polemica antiuxoria, tra le quali è impossibile non notare la voluta confusione del sostantivo «marito» con il nome proprio di un santo che, secondo la giocosa superstizione popolare proteggerebbe proprio le vittime di adulterio, i “cornuti”: S. Martino.

[41] Genesis I, 18-25: «Dixit quoque Dominus Deus: Non est bonum esse hominem solum: faciamus ei adiutorium simile sibi. [...] Adae vero non inveniebatur adiutor similis eius. Immisit ergo Dominus Deus soporem in Adam: cumque obdormisset, tulit unam de costis eius, et replevit carnem pro ea. Et aedificavit Dominus Deus costam quam tulerat de Adam, in mulierem: et adduxit eam ad Adam. Dixitque Adam : hoc nunc, os ex ossibus meis, et caro de carne mea: haec vocabitur Virago, quoniam de viro sumpta est».

[42] Una errata interpretazione del passo potrebbe corroborare una certa posizione della critica sulla misoginia del Bruno. In realtà non è concepibile che una filosofia che propugna il valore dell’individuo e la dignità di ogni singola manifestazione della vita (della vita-materia), accetti una così banale esecrazione della femminilità, altrove, come si è visto, portavoce di valori altissimi e spiritualizzata. Per questo si veda la figura di Morgana nell’epistola dedicatoria. Ancora un’altra prospettiva sulla femminilità emerge nel dialogo tra Carubina e Gioan Bernardo (Cand., V, 11, pp. 319 s.), per il quale si veda infra, par. 3.

[43] Nel Beco del Belo (IV, 3), il protagonista afferma: «mia mogliera […] è una robaccia da frati». Ma già nel Gargantua (I, 45), «Elle pourroit être aussi laide que Proserpine, elle aura par Dieu la saccade, puisqu’il y a moines autour». Dice lo Spampanato nella nota al luogo: «I Frati di santa Maria la Nova erano Minori osservanti, ed a Napoli non godevano nome affatto migliore de’ Minori conventuali di Milano, i quali, narra il Bandello (II, 48), sono licenziosi, dissoluti, poco onesti e menano una vita scandalosa e di pessimo esempio. Dalla gran distribuzione di minestra (broda) che essi facevano a’poveri, nasce l’equivoco osceno» (Spampanato 1923, 127).

[44] Non può passare inosservato il doppio senso osceno di entrambi i riferimenti, ma il significato di «scarrupato», afferma lo Spampanato, «è voce napoletana e significa propriamente “abbattuto”, “crollato”» (Spampanato 1923, 128).

[45] Adriano VI (Adriano Florensz) di Utrecht (1459-1523) fu eletto Papa nel 1522 alla morte di Leone X e si attirò ben presto l’odio dei cortigiani per la severità dei costumi e per la parsimonia delle spese, morendo poi dopo solo un anno e mezzo di pontificato. Il Berni scrisse sull’argomento un capitolo nella materia e nei modi della poesia pasquinesca che definiva il rigido pontefice «arlotto | figlio d’un cimator de panni lini» Capitolo di Papa Adriano, 5-6, in Berni, Rime, p. 66.

[46] Scrive il Romei che il Capitolo di Papa Adriano «fu composto fra il 29 agosto 1522 (ingresso del Papa in Roma) e il 21 dicembre dello stesso anno (caduta di Rodi, che ai vv. 128 s. è ancora pericolante)» (Romei in Berni, Rime, p. 66).

[47] Capitolo di Papa Adriano, 111-18 in Berni, Rime, p. 70.

[48] Ibid., 122-26 e 151-56, p. 70.

[49] Spaccio, in Dialoghi filosofici italiani, pp. 653 s. La polemica anticristiana dello Spaccio è vista da F. A. Yates alla luce della più generale riforma ermetica e mirante a ripristinare l’antica religione egiziana. Dal momento che egli abbandona l’interpretazione cristiana dell’ermetismo, individuando nella magia la vera essenza e il nucleo fondante dell’ermetismo, Bruno «non può essere definito un ermetico cristiano» (nella sua religione magica egli conserva un posto a Cristo solo in quanto lo considera un mago potente), «sebbene egli considerasse la sua riforma magica, o la sua profezia sull’imminenete ritorno della religione egiziana, come elementi che si dovessero sviluppare in un contesto cattolico» (Yates 1992, 254). A questo proposito si ricordi che Bruno nello Spaccio proponeva in modo esplicito agli inglesi l’amicizia di un re cattolico, quale Enrico III, che non approvava le ambizioni della Spagna e della Lega Cattolica, e che rinunciava ad una politica aggressiva nei confronti degli altri stati, nel tentativo di superare i contrasti e tornare ad una antica unità spirituale europea. Si veda per questo Spaccio, in Dialoghi Filosofici Italiani, p. 667.

[50] Spaccio, in Dialoghi filosofici italiani, p. 651.

[51] Di nuovo Origene, Contra Celsum I, 68: «Ammettiamo che sia vero», scrive Celso rivolgendosi a Cristo «tutto quello che è stato scritto sulle guarigioni, sulle resurrezioni, sui pochi pani che sono bastati a sfamare tanta gente […]. Esse sono analoghe a quelle degli stregoni, che ne promettono di più mirabolanti, e a quelle compiute dai discepoli degli Egiziani che per pochi soldi svendono in mezzo alle piazze gli arcani della loro scienza. Orbene, visto che fanno queste cose, vorrai dirmi che questi personaggi sono figli di Dio?».

[52] Si veda a questo proposito l’esempio della Mandragola, che sicuramente Bruno ha qui presente. Nel finale a sorpresa della Mandragola, la presa di coscienza di Lucrezia e la sua decisione di prendere parte all’inganno ordito ai danni di suo marito ne modificano la posizione nell’economia del plot secondo modalità che la avvicinano al personaggio di Carubina: da oggetto del raggiro essa assume su di sé la responsabilità di una scelta, dimostrando intraprendenza e solerzia. Lucrezia afferma infatti: «poiché l’astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia del mio confessoro mi hanno condutto a fare quello che mai per me medesima arei fatto, io voglio giudicare che venga da una celeste disposizione, che abbi voluto così, e non sono sufficiente a ricusare quello che’l Cielo vuole che io accetti» (Machiavelli, Mandragola, p. 70).

[53] Spampanato (1923, XXVI): «Chi leggerà la commedia, in una delle ultime scene del quinto atto non potrà non notare un aneddoto, sia per il contenuto, sia per uno de’protagonisti, Scipione Savolino. Da un fratello di Albenzio, Giovanni e da Luna nacque […] la madre del Bruno, Flaulisa Savolino, nel 1522; e due anni prima era nato Scipione. Il quale, sposata, il 1542 o giù di lì, una certa Antonietta, ne ebbe presto diversi figliuoli: Gian Luigi, Mercurio, Auteria, e, nel 1547, Morgana».

[54] Il disprezzo più volte manifestato dal Bruno nei confronti del sacramento della confessione avrà notevole parte nello smantellamento e nell’irrisione del dogma sia nel Candelaio, che più tardi nello Spaccio. Qui «Giove cerca di porre in atto, attraverso la preghiera ed il ravvedimento interiore, quella disposizione che sola può garantire che non soltanto il fato non ha abbandonato gli dei ma è anzi destinato a tornare a loro favorevole. Solo il suo ravvedimento, cui deve seguire quello delle altre divinità, può dar luogo a quel concilio […] il cui fine primario è il ristabilimento della giustizia del mondo» (Ingegno 1985, 36). è interessante notare come nel dialogo londinese Giove premetta alla riunione delle divinità una vera e propria confessione secondo il triplice schema previsto dal rito atanasiano: confessio oris, contritio cordis, satisfactio operis, il cui culmine è raggiunto dall’imperativo noli me tangere con cui il re degli dei allontana da sé Venere e con il rifiuto della “grazia” di Ganimede. La necessità di un ravvedimento, come ha giustamente riscontrato Ingegno è sì in linea con il progetto di palingenesi universale di Bruno, ma tradisce anche la difficoltà di rintracciare strumenti di analisi e riflessione alternativi alle procedure del rituale cattolico. Per questo si veda anche Ciliberto (1990, 145 s.). Si veda inoltre: Cand. V, 22.

[55] Spaccio, in Dialoghi Filosofici Italiani, p. 652.

[56] Non si dimentichi che qui, sotto processo, vestito con i panni di Bonifacio, è Gioan Bernardo. L’equivoco calcolato nei minimi particolari è un espediente che di nuovo dimostra come Bruno avesse intuito i possibili esiti scenici della commedia e il felice ammiccare beffardo tra personaggio e pubblico ai danni dell’antagonista.

[57] Luca VII, 37-9, 44-50: «Et ecce mulier, quae erat in civitate peccatrix, ut cognovit quod accubuisset in domo pharisaei, attulit alabastrum unguenti: et stans retro secus pedes eius lacrymis coepit rigare pedes eius, et capillis capitis sui tergebat, et osculabatur pedes eius, et unguento ungebat. […] dixit autem [Magister] Simoni: Vides hanc mulierem ? Intravi in domum tuam, aquam pedibus meis non dedisti: haec autem lacrymis rigavit pedes meos. Oleo caput meum non unisti: haec autem unguento unxit pedes meos. Propter quod dico tibi: Remittuntur ei peccata multa, quondam dilexit multum. Cui autem minus dimittitur, minu diligit. Dixit autem ad illam: Remittuntur tibi peccata. Et coeperunt qui simul accumbebant, dicere intra se: Quis est hic qui etiam peccata dimittit? Dixit autem ad mulierem: Fides tua ne salvam fecit: vade in pace».

[58] Luca XXIII, 23-6: Dal momento che i Giudei «instabant vocibus magnis postulantes ut crucifigeretur: et invalescebant voces eorum», Pilato «adiudicavit fieri petitionem eorum. Dimisit autem illis eum qui propter homicidium et seditionem missus fuerat in carcerem, quem petebant: Iesum vero tradidit voluntati eorum».

[59] Il ladrone che si pentì ed ottenne pietà dal Cristo in croce (Nicodemo, Evangelia apocrypha, Narratio Iosephi) si chiamava Dimas. Quello che invece morì impenitente aveva nome Gestas. Lo stesso Bruno, «nella prima redazione della Cena de le ceneri (G., II, p. XVII) [afferma che] “il nostro redentore […] morse tra due villani Dimas e Gestas”» (Spampanato 1923, 205).

[60] Iohannes XVI, 21: «Mulier cum parit, tristitiam habet, quia venit hora eius; cum autem peperit puerum, iam non meminit pressurae propter gaudium, quia natus est homo in mundum».

[61] Spaccio, in Dialoghi filosofici italiani, p. 666.

[62] Ciliberto (1990, 81).

[63] Spaccio, in Dialoghi filosofici italiani, p. 598.

[64] Corsaro (1997, 277).

[65] Spaccio, in Dialoghi filosofici italiani, p. 596.

[66] Si tratta di una «verità che nella varia e difforme casistica amorosa dell’Aminta, egoistica e governata dall’appetito ovvero altruistica e riscattata dalla sofferenza e dalla morte, è in ogni caso immanente, ovvero priva di un reale supporto finalistico. Da qui si spiega infine il ripetuto conflitto tra natura e istinti da una parte e civiltà e tempo dall’altra» (Corsaro 1997, 269).

[67] Platone, Repubblica, V, 1625, p. 202: «Or non abbiam detto prima, che se fosse apparso qualcosa che è e non è insieme, questo qualcosa sarebbe stato a mezza strada fra ciò che assolutamente è e ciò che totalmente non è, e ad esso non si sarebbe applicata né la scienza né l’ignoranza, ma ciò che a sua volta fosse apparso a mezza via tra l’ignoranza e la scienza? […]. Ci resterebbe allora da trovare, a quanto sembra, quella cosa che partecipa di entrambi dell’essere e del non essere, e che non può essere giustamente chiamata nel pieno senso con nessun dei due nomi; affinché ove compaia, possiamo dire con ragione che essa appunto sia opinabile, dando agli estremi gli estremi, e agli intermedi gli intermedi».

[68] I due gradi successivi, pertinenti alla epistéme, alla scienza, sono la conoscenza mediana, (diánoia) e la pura intellezione (nóesis). Esse si riferiscono ai due gradi dell’intellegibile; la diánoia è la conoscenza matematica e geometrica, la nóesis è invece la pura conoscenza dialettica delle Idee. La diánoia ha ancora a che fare con elementi visivi e con ipotesi, mentre la nóesis è il momento del puro cogliere le Idee e del principio supremo e assoluto da cui tutte dipendono; in questo senso essa coincide con l’Idea del Bene.

[69] Corsaro, Introduzione a Lando, Paradossi, pp. 9 s.: «La cultura umanistica, […], aveva appurato l’impossibilità di esistere della esercitazione paradossale al di fuori di una coscienza storica della communis opinio oggetto di critica. Dietro al paradosso cinquecentesco (da Erasmo a More, da Agrippa a Montaigne a Donne) è in realtà una visione tormentata del reale, cui sottostà il fine ambizioso di dimostrare il carattere drammatico della conoscenza – magari all’interno di una esposizione essa stessa drammatica – ed il valore propedeutico della menzogna come strumento indiretto di verità […]. Tutto ciò che si crede per convenzione brutto, nefasto, riprovevole, è in realtà fonte di verità e di edificazione dell’anima. Un discorso morale sotteso, latente, affiora fra le maglie del lusus, ne rinvigorisce la forma, ne evidenzia i contenuti possibili». A sostegno del carattere endemico dell’esercitazione paradossale negli ambienti intellettuali del Rinascimento, giova qui ricordare che Francine Danaens ha intuito come in età rinascimentale la “verità” altro non rappresenti che «la cultura (l’assenza di cultura) dell’uomo rozzo che non vive nelle corti e negli ambienti colti delle città». Proprio in tali ambienti «la menzogna non viene tollerata, consigliata o legittimata: è ciò che fa cultura, ciò su cui si fonda la società civile, che ne prova l’appartenenza e ne cementa la coesione ad ogni livello, dalla gestualità del linguaggio all’architettura». Questo concetto di menzogna come civilitas si fonda sulla qualificazione della menzogna come ars, come artificio. In questa luce, secondo la studiosa, il paradosso si prefigurerebbe proprio come «encomium mendacii», e la menzogna costituirebbe la discriminante – non solo sociale – tra la «sciocca opinion del volgo» e il sapere dei pochi virtuosi, tra la dóxa, l’opionione della moltitudine e la parádoxa che si propone come «verità più vera» (Danaens 1989, 101 ss.).

[70] Si veda Corsaro, Introduzione a Lando, Paradossi, p. 14: «Con alle spalle il suo sofisticato retroterra umanistico, il paradosso portava con sé gli strumenti di una scrittura intrinsecamente aristocratica, tendenzialmente idonea ad un circuito di fruitori padroni del medesimo territorio semantico e logico. Ma, come il Doni aveva capito e chiarito, l’operazione landiana ubbidiva a un progetto consapevole e controllato di conversione di quel complesso sistema argomentativo, tale da condurre il nuovo pubblico del volgare – tradizionale rappresentante della communis opinio – a condividere il nuovo punto di vista, rileggendo la dóxa nella prospettiva di un possibile bersaglio polemico».

[71] Si veda a titolo di esempio il Paradosso XI, Non essere detestabile né odiosa la moglie disonesta. Il Lando sorregge la tesi paradossale attingendo agli esempi di celebri adultere, mogli di altrettanto celebri potenti e tiranni della mitologia e della storia: «Legasi un poco l’istoria di Arcturo, (quantunque favolosa ci paia), legasi di Olimpiade, che tante volte e sì cautamente puose la diadema del montone sul capo di Filippo re di macedonia, legasi de Cleopatra, la quale in Egitto essendo, spinta non da premio (come oggidì si fa) ma sol da passione amorosa, con sì leggiadra e inusitata maniera a Cesare si conduceva; legasi di Clitennestra e di Elena, che alla presenza delli ambasciatori Greci, avendo ritrovato molto migliori giaciture in Troia che in Gretia, non si vergognò di dire che volentieri, e non sforzatamente, avesse seguito l’adultero troiano; legasi parimenti di Fedra, di Messalina, moglie di Claudio, e amante di Silio, di Pasife, di Simiamira madre di Eliogabalo e di Antonio Caracalla sì focosamente innamorata; legasi di Beronice, di Medea, di Sassia, e di Popullia» (Lando, Paradossi, pp. 158 s.).

[72] Il Berni, nel suo capitolo A messer Francesco [Navizzani] Milanese, parlando del suo soggiorno a Venezia afferma: «Stemo in una contrada et in un rio | presso santa Trìnita e l’arzanale, | incontro a certe monache d’Iddio, | che fan la pasqua come il carnevale, | id est che non son troppo scrupolose, | ché voi non intendeste qualche male» (Berni, Rime, p. 103).