Liana Lomiento - Università di Urbino

L’“estetica” nasce come disciplina autonoma nel Settecento. In quel momento storico, con l’affermarsi di un’idea nuova di sensibilità, di un modo diverso di guardare alle cose, conseguente alla creazione del “soggetto” moderno, si istituisce una nuova nozione dell’ arte. L’arte bella si fa terreno d’elezione della facoltà sensibile e diviene autonoma dagli altri campi dell’attività umana, sebbene inferiore rispetto alla facoltà intellettuale da un punto di vista conoscitivo. Diversamente, “prima dell’estetica” l’approccio con le cose aveva forma non di adeguamento del mondo fuori di noi alle nostre facoltà conoscitive, ma di adaequatio intellectus cum rebus, di «adeguamento e subordinazione dell’intelletto, attraverso la percezione sensibile, alle cose fuori di noi» (p. 13), un “adeguamento” la cui natura effettiva è identificata nel saggio di Daniele Guastini (d’ora in poi G.) come mimesis. Da Alcmane (VII sec. a.C.) ad Aristotele (IV sec. a.C.) è operante, in effetti, la concezione dell’arte poetica come “imitazione”. Ma l’interpretazione che G. dà di mimesis differisce da quella consueta – ed è questo l’aspetto più cruciale del lavoro – : mimesis è intesa da lui come «ri-presentazione, presentazione su un altro piano» in un senso «ontologico e insieme pratico» (p. 20), intimamente legata alla memoria in quanto «mezzo» per «sapere e conoscere» (p. 11), «per rammemorare qualcosa che è considerato una realtà originaria eppure fondamentale per la vita pratica degli uomini» (p. 21), il cui nucleo ontologico è individuato nel mito (p. 11). È una concezione che – nelle parole di G. – «ancora prima di rendersi disponibile in una precisa teoria già vediamo agire in profondità nella cultura greca. Infatti, solo con la filosofia si potrà parlare di una vera e propria teoria della mimesis» (p. 6), ma la stessa teoria filosofica non farà altro che definire un orientamento di gran lunga preesistente alla sua teorizzazione. Con questo speciale valore, l’orientamento “mimetico” della poesia arcaica è individuato da G. essenzialmente nel valore paideutico, sapienziale e veritativo conferito dai Greci alla poesia, mentra la poiesis tutta si configurerebbe come «un ricordo che il mimeisthai, con la sua forza rievocativa, sa riportare alla memoria» (p. 22): se con Anassimene, Parmenide, Senofane, Eraclito, Empedocle, si può parlare di un mythos filosofico, non ancora specializzatosi come “genere” di indagine razionale, la poesia, d’altra parte, assume la portata di un logos poetico, discorso filosofico in versi e in immagini, veicolo di conoscenza teorica e di saggezza pratica. In questo quadro è – con ragione – scartata da G. la vecchia tesi di un passaggio dal mythos poetico al logos filosofico. Prima che la filosofia assumesse, con Socrate, i tratti di una ricerca logica, si deve piuttosto individuare nella poesia stessa un intreccio indirimibile di logos e mythos, che è insieme ricerca di verità e sopravvivenza del mito. Ricerca di verità attraverso la mimesis: e «perché ciò sia possibile – riflette G. – il principio del componimento poetico deve essere pensato come un vincolo che lega la rappresentazione al contenuto in essa rappresentato, che coniuga la “finzione” con la sua [sic] realtà» (p. 8). È proprio questo vincolo a venir meno nell’estetica moderna, che pone al centro della propria riflessione il gusto e la bellezza e ne valorizza il lato soggettivo, così rendendo autonomo il mondo dell’arte – l’arte bella – dalle altre attività umane e dalla stessa realtà rappresentata. “Verità”, aletheia, è intesa da G., con Heidegger (p. 12 e n. 17, p. 173), come Unverborgenheit, “non nascondimento”, manifestarsi dell’ente nel suo essere “evento della verità”: «– to on, l’ente, ciò che è – il cui essere si dà già originariamente formato fuori di noi e nei confronti del quale alla nostra facoltà conoscitiva non resta altro che adeguarsi e conformarsi al meglio delle sue possibilità. In tal senso anche l’imitazione fa parte di questo incessante lavoro di adaequatio al vero». Ma, accanto al modello heideggeriano, un peso rilevante, nella ricostruzione di G., sembra rivestire l’opinione espressa, nell’opera Filosofia della Mitologia, da O. Schelling secondo il quale il mito sarebbe stato considerato per tutta l’età classica «una delle forme della rivelazione del divino» (p. XI).

Aletheia, mimesis, mythos: sono le nozioni-chiave sulle quali G. imposta la propria rilettura della “poetica” antica nei termini di una «ontologia metafisica – che individua un essere soprasensibile dell’ente e l’identifica con il divino – e che se trova nella filosofia il suo punto di massima perspicuità lo deve anche alla lunga preparazione a cui è stata sottoposta dalla paideia mito-poetica» (p. 16). Ma solo nella riflessione sulla mimesi condotta da Platone e Aristotele, cui sono destinati i capitoli centrali e più corposi del volume (2-3), G. ammette si possa ravvisare di tutti questi aspetti una definizione teorica e un quadro di collegamento esplicito (p. 33), mentre a partire dall’età ellenistica e con maggiore evidenza dopo l’avvento del cristianesimo – che sono l’argomento del quarto e ultimo capitolo –, con la retoricizzazione del concetto di mimesi e il suo divenire aemulatio, emulazione degli antichi modelli letterari, da una parte e, dall’altra, col progressivo imporsi del metodo allegorico d’interpretazione dei testi poetici, ha luogo una frattura rispetto al modo di concepire l’arte poetica nell’età arcaica e classica e s’impianta da lontano – per così dire – il germe della modernità: l’una e l’altra trasformazione costituirebbero, «nel loro avvicendarsi, un fenomeno unico di distanziazione dall’idea, propria della classicità greca, della presenza dell’essere nell’ente» (p. 141).

L’assunto di partenza è bene argomentato ed è evidente: la distanza tra la modalità poetica della conoscenza che, nell’antichità, attraverso la mimesis si configura come adaequatio intellectus cum rebus, e la modalità estetica moderna, vincolata al soggetto. La ricostruzione di G., brillante, perspicua in ogni sua singola parte, dà – a tratti – l’impressione di una certa libertà nella lettura dei testi e nell’uso delle fonti, specie nelle sezioni platonica e aristotelica, quando termini teorici fondamentali come mythos, mimesis, eikos, ricorrenti nella Repubblica o nella Poetica, sono interpretati, o meglio precisati, alla luce dell’uso che, di quegli stessi termini, è documentato in altri scritti dei medesimi autori e in contesti differenti, andando «a cercare altrove risposte che», in quei passi, «restano ancora implicite» (p. 43), quasi che la loro opera si possa leggere come un tutto unitario: operazione rischiosa, in generale, negli autori antichi e, in particolare, in autori compositi e poco sistematici come Platone. Di quest’ultimo G. utilizza, oltre a Repubblica, il Fedro, il Timeo, il Cratilo, il Simposio, il Sofista, il Teeteto, ma non le Leggi, che – accanto alla Repubblica – contengono, nel secondo libro, l’altra fondamentale sezione specificamente poetica nell’opera del filosofo ateniese.

Va detto che il saggio di G. coniuga con pari competenza – ed è dote non ovvia – discipline tra loro non facilmente armonizzabili, la filosofia, la filologia, la storia e, in particolare, il filologo e lo storico della cultura dovranno esser grati all’autore, perché si offre loro una nuova opportunità di ripensare le nozioni nodali della speculazione greco-antica sulla poesia e, soprattutto, perché si pongono queste ultime in fruttuoso dialogo, sia pure per confermarne la distanza, con la modernità. Ma è anche evidente che ci si trova di fronte a esigenze metodologiche diverse: dove il filosofo tende a individuare un’unità dietro alla multiforme varietà delle manifestazioni poetiche nei diversi tempi e generi letterari, l’interesse maggiore dello storico sarebbe quello di evidenziare distinzioni e singolarità. È, in effetti, proprio l’uniformità complessiva del pensiero antico sulla poetica che si ricava leggendo questo libro a stimolare, in chi ha una impostazione più specificamente filologica, l’esigenza di puntualizzare, di articolare differenze, per dare, di quel quadro, che è attendibile nel suo insieme, un’immagine storicamente più complessa. Perché, se si riesaminano in senso diacronico – sia anche rapidamente – i valori che delle nozioni di aletheia, mimesis e mythos sono documentati nelle diverse epoche arcaica, tardo-arcaica e classica (e talora anche nei diversi generi poetici dell’epica, della lirica monodica e corale, del teatro), diviene chiaro che in questo non esiguo arco temporale, e nell’ambito di una ricostruzione che si vuole storica (cfr. G. pp. VIII e XI), dietro alla denominazione generale di “poetica” antica si ravvisano posizioni sfumate, tra loro non perfettamente combacianti. Le fonti, per noi, non possono che essere i testi poetici stessi, e in generale i testi letterari, teorici ed eruditi, di cui disponiamo. Ciò che la gente sentiva, rispetto a ciò che diceva, sulla poesia, resta evidentemente inaccessibile allo storico, né ha la stessa importanza che riveste nella nozione moderna di esperienza estetica. Tralasciando di discutere le parti del volume dedicate alle teorie, rispettivamente, platonica e aristotelica sull’arte (su Aristotele vedi le osservazioni di Graziella Travaglini), e alle innovazioni introdotte dal pensiero ellenistico e giudaico-cristiano, mi concentrerò sul primo capitolo, nel quale G. restituisce un’immagine unitaria della “poetica” antica, dall’età arcaica all’età classica e, in dettaglio, sui concetti-guida della sua ricostruzione.

Iniziamo da aletheia.

Che la parola del poeta avesse un valore sapienziale e veritativo nella cultura greca è ben noto. Nella fase più arcaica, il cantore epico è «Maestro di Verità», per usare la celebre definizione di Marcel Detienne [1] . In pubbliche audizioni e nei banchetti aristocratici, innalza lodi agli dèi e alle gesta gloriose degli antichi eroi, e gode del particolare favore della divinità. In quel momento di speciale importanza che è l’inizio del canto, può rivolgersi alle Muse, le patrone della sua arte, confidenzialmente e semplicemente, senza alcun rituale che non sia l’invocazione. Divine depositarie della materia dei canti, figlie di Memoria (Mnemosyne) nella tradizione esiodea, esse rappresentano la Tradizione. Le Muse e la Memoria sono le potenze religiose che configurano la nozione di aletheia nell’età arcaica, alla lettera: “la non-dimenticanza”, la testimonianza fededegna dei fatti passati. Le Muse rivendicano il privilegio di dire la verità, e quest’ultima acquista significato in rapporto alle Muse e alla Memoria, ed è solidale con esse. Sono i servitori delle Muse, e Maestri della Lode, a decidere del valore e della “gloria imperitura” (kleos aphthiton) di un eroe, con l’accordargli o rifiutargli il ricordo veridico. Con l’efficacia della sua parola il poeta conferisce essere, o realtà, a un semplice mortale, e la sua verità è assertoria, non contestabile, non dimostrata. Soprattutto, è inseparabile dalla Lode: non si contrappone alla Menzogna, ma all’oscurità del Biasimo o all’assenza di commemorazione, al silenzio dell’Oblio (Lethe). Così, nell’Odissea 19, 203, dove si narra come Odisseo, nel riferire di sé alla sposa Penelope, «fingeva, dicendo molte menzogne simili al vero» (iske pseudea polla legōn etymoisin homoia), la parola che indica il “vero” è etyma, non aletheia.

Un riferimento a questo passo omerico è nella Teogonia (v. 24 sgg.), ricordato da G. a p. 7, dove Esiodo (VII sec. a.C.) narra la propria investitura poetica, ricevuta dalle stesse Muse:

questo discorso, per primo, a me rivolsero le dee,

le Muse d’Olimpo, figlie di Zeus egìoco: “O pastori, che avete i campi 

per casa, obbrobrio, solo ventre;

noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero (etymoisin) [2] ,

ma sappiamo, quando vogliamo, cose vere (alethea) cantare” [3]

Che a lui solo, tra tutti gli altri poeti, le dee rivelino le medesime cose che costituiscono il tema del loro canto per Zeus, fa di Esiodo un tramite privilegiato fra la divinità e l’uomo: una condizione in virtù della quale egli proclama, in qualche modo, il suo primato e la sua dignità per la missione di insegnamento cosmogonico che egli qui si propone [4] . Forse proprio in polemica con l’autorità omerica: l’opinione che Omero fosse un mentitore fu molto diffusa nell’antichità, e l’elemento polemico s’incentrava proprio sulla attendibilità dei fatti tramandati. È così che deve intendersi l’esigenza di verità di Esiodo, come quella di ogni altro poeta antico. E tuttavia le contraddizioni pur esistenti tra le differenti versioni delle medesime leggende, o persino all’interno delle genealogie divine, rendevano altrettanto chiaro che, al pari di ogni altro poeta, anche Omero non sempre diceva la verità [5] .

Nella poesia tardo-arcaica e classica il valore di aletheia assume gradazioni di senso differenti. La Musa si secolarizza, diviene ergatis, “mercenaria”, e il poeta una figura professionale; la sua arte acquisisce un valore commerciale, alla stessa stregua di un oggetto scolpito o dipinto, ed è vincolata alle esigenze della committenza. Già nel VI sec. a.C. Simonide, autore di poesia eulogistica e di inni agli dèi, istituendo per la prima volta un confronto con la pittura, sembra avere introdotto una nozione di poesia come arte ingannevole, dove l’inganno ha però una valenza positiva, connotando il carattere d’illusione specifico della composizione artistica [6] . Emblematico l’aneddoto secondo il quale a chi gli chiedeva come mai solo i Tessali egli non riuscisse a sedurre con la propria arte, il poeta rispondeva: «sono troppo ignoranti per essere ingannati da me» [7] . Eppure, la verità della parola poetica è, per così dire, tematizzata nel genere encomiastico della lirica corale. L’insistenza di Pindaro (V sec. a.C.) sul fatto che sta dicendo la verità è ancor più vigorosa di quella di Esiodo. Nella tredicesima Olimpica, un canto di lode per la vittoria atletica del corinzio Senofonte nella corsa lunga e nel pentathlon ai giochi olimpici, al momento di commemorare – in ottemperanza al genere dell’eulogia – il leggendario passato della patria del laudando, il poeta, disponendo di una materia mitica scomoda perché non favorevole ai più celebri eroi della città, l’astuto, ingrato Sisifo, la folle Medea, afferma con sdegno (v. 52 sgg.):

non mentirò (ou pséusomai) su Corinto dicendo

           di Sisifo, estroso quanto un dio di risorse,

e di Medea che contro il padre

           volle per sé le nozze [8]

e ancora, in questa stessa ode, dopo aver commemorato le imprese del famoso eroe corinzio Bellerofonte, il quale – come voleva la leggenda – morì disarcionato da Pegaso mentre tentava di volare fino in cielo, punito dagli dèi per la sua empia ambizione, conclude: «tacerò la sua fine, io» (v. 91). La convenienza pratica lo induce a tralasciare un episodio non gradito all’uditorio dei corinzi. Ma nella settima Istmica (v. 44 sgg.), che celebra la vittoria di un atleta tebano, la fine dell’eroe corinzio è, al contrario, additata come la punizione esemplare per chi ha mirato troppo lontano cercando una gioia temeraria, fuori del diritto sentiero [9] . E ancora, al v. 17 di questa stessa Olimpica, riferisce che il ditirambo fu inventato a Corinto, ma altrove ne colloca l’invenzione a Tebe o a Nasso [10] . Il mito gioca per lui un ruolo pragmatico: stabilisce una relazione tra gli ascoltatori e lo stesso poeta, instaura un’illocuzione di elogio. Ma Pindaro insiste sulla propria veridicità nonostante questo libero, potremmo dire retorico, trattamento del mito, o meglio delle sue infinite varianti che sono di volta in volta selezionate dal poeta e adattate alle singole località d’origine delle committenze, e ai diversi uditorii: «colsi l’occasione di molti racconti senza incorrere nella menzogna (pseudos)», afferma con fierezza nel proemio della prima Nemea (v. 18). Aletheia, la “verità”, si oppone qui a pseudos, la “menzogna” [11] : vuole essere non solo memoria fedele e inalterata del passato, ma anche rappresentazione irreprensibile in rapporto alla realtà degli uomini e degli eventi rappresentati, per dirla con Tucidide, alla «verità dei fatti» (ergon aletheia, 2, 41, 4). Ma anche la verità, come la vicenda biografica dell’eroe, è bifronte: coesistono nel suo messaggio il bene e il male, il brutto e il bello, il giusto e l’ingiusto, il pio e l’empio. E se essa impone di dire cose inopportune, inadeguate all’occasione, è meglio – nell’ideologia pindarica – preferire le vie del silenzio. Pindaro è però consapevole del fatto che, nel racconto poetico dei miti, la verità può sempre essere alterata ad arte [12] , giacché esso mira a rendere il canto più persuasivo e dilettevole a chi ascolta. E, al pari di Pindaro, i poeti dell’età tardo-arcaica avevano chiara la consapevolezza che la poesia, per compiacere l’uditorio, faceva ricorso alla finzione: pollà pseudontai aoidòi, «molte le menzogne dei cantori», si legge già in Solone, nel VI sec. a.C. (29 IEG).

Ma come spiegare questo apparente arbitrio nel riportare le leggende mitiche? È certamente un atteggiamento molto diverso da quello che nella nostra cultura si avrebbe verso la Scrittura biblica (G. p. 172, n. 8). Il mito greco è un complesso di racconti tradizionali e non scritti – e per questo disperatamente contraddittori [13] – che narravano le genealogie divine, le biografie eroiche e dei re. Questa antica materia eroica, in particolare, parlava di origini, di fondazioni, di imprese belliche, di drammi di famiglia, i cui protagonisti erano di origini principesche. Essa costituì un repertorio comune di usi, costumi, comportamenti e valori, e fu utilizzato non solo dai poeti ora per istruire la comunità, ora per introdurre un racconto esemplare in rapporto a un evento attuale, ma persino dagli storici, per attingere informazioni intorno a epoche altrimenti inconoscibili. L’arte poetica, certo, contribuì a dar forma memorabile e persuasiva a singoli miti, e la recitazione o il canto di questa poesia fu una componente irrinunciabile della festa divina [14] .

A differenza della historie, il resoconto storico, etimologicamente legato alla nozione di “vedere” e affidato eminentemente all’esperienza diretta, esso consisteva nel ripetere ciò che si diceva sugli dèi e sugli eroi (il kleos, la “fama”, alla lettera: “ciò che si ode”). La stessa Musa non faceva che ripetere, ricordare. Quando si tratta di dèi o di eroi la sola fonte informativa è il “si dice”, e questa fonte gode di una misteriosa autorità, sebbene fosse chiaro a molti che le Muse, come narra Esiodo, sanno dire il vero come anche mentire, e i poeti che mentono si ricollegano a quelle stesse Muse che hanno ispirato Esiodo e Omero. In una metafora che non ha precedenti, e che è parodia della tradizionale formula epica kleia proterōn anthrōpōn, la «fama degli uomini di un tempo», Senofane, nel VI sec. a.C., definisce le storie dei Titani e altre simili storie plasmata tōn proterōn «costruzioni» o «fabbricazioni degli antichi» (IEG 1, 24). È un’immagine che consente al poeta di connettere, suggestivamente, i falsi racconti dei cantori con le false, antropomorfiche immagini scolpite e dipinte dagli uomini. Del resto, non credere a tutto era sentita come una qualità greca per eccellenza: «già in antico – afferma con orgoglio Erodoto – la stirpe ellenica si è distinta dalle popolazioni barbare nell’essere più attenta e più libera da una puerile credulità» [15] . Bisogna ammettere, come ha osservato argutamente Paul Veyne, che «il loro modo di non credere continua a imbarazzare» [16] . Rappresentò un problema già nell’antichità, e fu oggetto di approfondite riflessioni. I Greci non avevano finito di occuparsene ancora sei secoli dopo il movimento sofistico se Pausania (metà del II sec. d.C.), per esempio, appare ancora assillato dall’enigma del mito. Ma quando Erodoto, nel secondo libro delle Storie (2, 53) riferisce come tutto quanto si sa sugli dèi, i loro nomi, le loro genealogie, i Greci lo devono a Omero ed Esiodo, non sta – mi sembra – elogiando l’onniscienza dei poeti, ammettendone ingenuamente il «ruolo cruciale» (G., p. 8) nell’educazione degli uomini. All’onniscienza dei poeti Erodoto non crede. Egli sta constatando – con spirito non dissimile, anche se certo meno indignato, da quello che animerà Platone nella Repubblica – come Omero ed Esiodo abbiano finito col divenire i depositari dell’immaginario religioso collettivo, come l’immagine e la concezione della divinità derivino proprio da loro, e non, eventualmente, da poeti che li avessero preceduti [17] .

L’atteggiamento critico di un Erodoto, un Aristotele, un Pausania, consiste nel riconoscere nel mito una tradizione orale, una fonte storica che occorre criticare e razionalizzare, escludendone l’elemento “meraviglioso” [18] , caro ai poeti. Proprio per questo la poesia non può considerarsi – ai loro occhi – un mezzo adeguato di trasmissione del vero. È ancora Erodoto a documentare una limpida consapevolezza dell’artificioso metodo poetico quando, ancora nel secondo libro (2, 116-117), a proposito della versione del mito di Elena secondo cui la donna non sarebbe mai giunta a Troia con Paride, ma sarebbe invece rimasta in Egitto, conclude: «E, credo, anche Omero conosceva questa versione della storia: ma, poiché non era altrettanto adatta all’epopea quanto l’altra, di cui egli appunto si servì, la trascurò». Così, dopo l’epoca arcaica, il termine “mito” assume un valore leggermente peggiorativo, che qualifica una tradizione sospetta. D’altra parte, se dei miti si dubita quando presi, per così dire, ‘in blocco’, nessuno nega un fondo di storicità a ciascuna particolare leggenda: lo storico si impegna anzi a sfrondare e salvare quel nucleo di verità. Perché, e in questo è la profonda differenza con la nostra sensibilità di moderni – su cui ha ragione di insistere G. – il mito, per i Greci, non può parlare di nulla. La convinzione degli antichi, comune ai poeti, agli storici e ad altre categorie di intellettuali è che, una volta emendate le inesattezze della trasmissione, si ottengono fatti autentici. Anche se la forza del mito riposa – a mio parere – nella forza della tradizione, non in una sua natura metafisica.

E veniamo ora a mimesis, di volta in volta reso con “imitazione” o “rappresentazione”, “finzione”, “illusione” (dove la scelta stessa di una traduzione o dell’altra è in realtà di per sé un’opzione teorica) [19] , la nozione centrale nello sviluppo della teoria letteraria, classica e moderna, il termine più generale con cui, a partire dalla Poetica di Aristotele, sono tutt’ora concepiti i rapporti tra la letteratura e la realtà.

Ciò che degli antichi va accuratamente imitato, rifletteva già Leopardi, non è un repertorio di moduli stilistici, ma la disposizione verso la natura, l’attonita meraviglia con la quale si rivolgevano ad essa. L’ufficio del poeta, concludeva, è «non solamente imitar la natura, ma anche manifestarla». Secondo il suo pensiero, l’unico criterio al quale deve attenersi l’imitazione sarebbe il campo stesso del visibile [20] . È una lettura attenta, ben rispondente a quella che fu la posizione greca sul rapporto tra poesia e natura, come documenta tra i primi proprio Alcmane (VII sec. a.C.), ricordato anche da G. (p. 11), quando dichiara con orgoglio di conoscere «i canti di tutti gli uccelli», delineando il rapporto del poeta con la realtà – pur nell’assenza della parola mimesis o di parole affini che lo connotino – precisamente nei termini di una imitazione o riproduzione. Un rapporto che, in effetti, resta immutato per tutta l’antichità fino all’ellenismo. Ora, questa specifica nozione di mimesis è stata spesso rimessa in discussione dalla teoria letteraria moderna, che ha insistito sull’autonomia della letteratura rispetto alla realtà, al referente, al mondo, e ha sostenuto la tesi del primato della forma sulla sostanza, del significante sul significato. In questa direzione, la referenza sarebbe un’illusione che ostacola la comprensione della letteratura in sé, e al culmine di questa teoria si trova il dogma dell’autoreferenzialità del testo letterario («la poesia parla della poesia»).

Ma la genesi del termine mimesis e le più antiche testimonianze di una sua utilizzazione specificamente letteraria ne evidenziano, paradossalmente, un valore orientato sull’aspetto creativo e finzionale dell’arte più che sul suo aspetto riproduttivo.

Nell’epica omerica i poeti sono considerati artigiani alla stregua di altri, di rango non elevato, tuttavia né Omero né Esiodo paragonano mai il canto ai prodotti artigianali. È significativo invece che in Pindaro e Bacchilide, che compongono sulla scia di Simonide nella prima metà del V sec. a.C., ci sia un’esplosione di metafore poetiche attinte al campo semico dell’artigianato. Le “abilità” (technai) particolari a cantare, far musica e danzare per lungo tempo avevano proceduto parallele e nel V sec. a.C. ottennero il nome di mousiké, l’“arte delle Muse”, senza che tale definizione implicasse l’idea che essa produce oggetti d’arte come la pittura e la scultura. Perché una simile concezione fosse messa a fuoco, l’“arte delle Muse” doveva essere associata ad altre attività artigianali sotto la denominazione di “arti imitative” (mimetikai technai). Sembra essere stato Platone a definire questa nuova classe, che accostava poesia, musica e danza a pittura, scultura, talvolta architettura, in quanto capaci di una funzione simile [21] . Per dar nome a tale funzione il filosofo si servì del significato derivato, e probabilmente databile al V sec. a.C., di una parola indicante l’“imitare” o il “fare la mimica”. Gli usi più antichi di mimeisthai e vocaboli affini significano di norma l’“imitare” usando corpo e voce per riprodurre un atteggiamento umano o animale. Nella sua prima attestazione (VI sec. a.C.), nell’Inno omerico ad Apollo (v. 163), il verbo mimeisthai fa riferimento a un coro di ragazze (e non alle Muse, come intende G., p. 20), «le quali – nel canto – fanno la mimica» dei vari dialetti in un’esecuzione rituale, e nelle occorrenze preplatoniche prevale in genere il valore di “impersonare”, “riprodurre”. Anche eikon, designante la “somiglianza”, da una radice indicante il “somigliare”, e usato sia per denotare la somiglianza del manufatto sia per le immagini verbali, si attesta in questa stessa epoca. Da questi dati si ricava che, alla fine del V sec. a.C., almeno in certe cerchie, i canti erano paragonati alle opere delle arti visive [22] . Ma prima di Platone mimesis non gioca alcun ruolo significativo nella discussione sull’arte [23] . È lui che associa in modo efficace il termine “imitazione” alla nozione di “arte”, producendo il parallelo antico più prossimo alla nozione moderna di Beaux Arts. Naturalmente, nell’ontologia platonica “imitazione” ha una valenza peggiorativa mentre, con una ulteriore revisione del concetto, Aristotele colloca la mimesis al centro della sua teoria della poesia come “rappresentazione”. La Poetica inizia col dire che la poesia, al pari di pittura, scultura, musica strumentale e danza, è un modo di «rappresentare» i caratteri e le azioni umane. È, dunque, dall’analogia tra canti e sculture, pitture e altri prodotti concreti dell’artigianato che ha origine l’idea delle arti imitative e, di fatto, sia Platone che Aristotele introducono la loro discussione sulla poesia a partire da questi confronti.

Nel quadro di una, diciamo pure, “archeologia” della percezione della poesia nella Grecia classica, va ricordato un ulteriore fattore di interesse generale. Di nuovo, è non prima del V sec. a.C. che incontriamo il termine poietai, i “facitori”, in luogo di aoidoi, i “cantori”: la loro attività si connota come un “fare” (poiein, poiesis), non più come un “cantare”, o un “canto” (aeidein, aoide), mentre il prodotto può definirsi poiema, “ciò che è fatto”. L’improvvisa comparsa di questo vocabolario denuncia una concezione nuova dell’arte della parola: l’enfasi è posta più sul momento della composizione (“fare”) che sulla performance, più sull’abilità verbale del “facitore” che su altre qualità come la sapienza, l’attendibilità o il senso dell’appropriatezza, che tradizionalmente ci si attendeva da un “cantore”. Di conseguenza, quando il canto o inno (aoide, hymnos) divennero un poiema, i componimenti furono più facilmente considerati non come performances o eventi della vita sociale e religiosa, ma come oggetti d’arte verbali, i prodotti quasi tangibili di un processo artigianale. E la lingua, a sua volta, fu vista come materiale bruto che il poeta “mette insieme” (syn-tithenai, com-positio) e cui dà forma con abilità poietica. Questa prospettiva si estese ai diversi aspetti formali metrico-ritmico, lessicale, strutturale, dell’opera, e così la nascita della “poesia” finì con l’esprimere una concezione del canto come costruzione verbale rispondente a determinate regole compositive e particolarmente suscettibile di analisi retorica. L’“autorità” del canto fu sentita risiedere meno nella Musa che nel poeta creatore in quanto artista: in virtù della sua abilità creativa e combinatoria, egli trasforma la materia linguistica inerte in opera d’arte. Un fatto degno di nota è che il termine poietes, e termini affini, siano evitati dai massimi poeti del V sec. a.C. Di contro, la nuova terminologia, in questo stesso secolo, ricorre nei versi comici o simposiali e nella prosa. Una spiegazione plausibile è che quest’innovazione concettuale non si debba ai cantori, ma ad esponenti di nuove forme di conoscenza o di nuovi modi di usare la materia tradizionale del canto. Tra questi, si è ipotizzato con ragione [24] , gli storici, i retori, i pensatori preplatonici. Ma anche l’uso della composizione scritta dové esercitare una certa influenza su questa progressiva trasformazione della nozione di poesia se, dalla fine del V sec. a.C., le sottili bellezze formali della poesia si trovano associate alla scrittura e alla lavorazione di un testo al modo di un artigiano.

Tutte queste osservazioni non contraddicono la sostanziale correttezza di un importante assunto del saggio di G., la convinzione, cioè, comune a Esiodo, Pindaro, Ecateo, Erodoto, Tucidide, Platone, Aristotele, che ogni fatto di cui si conserva memoria deve essere vero, o realmente accaduto, perché nulla si può inventare ex novo. Per questo criticare i miti nella Grecia antica non voleva dire dimostrarne la falsità ma piuttosto recuperarne il nucleo di verità. Per dirla con Paul Veyne, la finzione insita nei miti, e nei resoconti poetici dei miti, lungi dal contrapporsi alla realtà, sembra esserne stata per così dire un sottoprodotto. Quello che, a mio parere, non si può riscontrare con evidenza nelle fonti, soprattutto di età tardo-arcaica e classica (a partire dall’età di Simonide, dunque), è il valore astratto, soprasensibile e metafisico di questa verità (aletheia) [25] .



[1] Detienne, M., 1977, I maestri di verità nella Grecia antica, trad. it. di A. Fraschetti, Roma-Bari, Ed. Laterza.

[2] Idmen pseudea polla legein etymoisin homoia.

[3] Esiodo, 2000, Opere, trad. it. di G. Arrighetti, Torino, Einaudi-Gallimard.

[4] Ma la protesta di verità è molto insistente anche nel proemio delle Opere e i giorni, v. 10.

[5] Cfr. ancora Hy. Hom. 1, 1-6; Solon. 21 (IEG 000); Pind. Ol. 1, 28 sg.; N. 7, 20 sgg.; ved. anche il laconico ομηρίδδειν (=ομηρίζειν ), sinonimo di ψεύδεσθαι, “mentire”.

[6] Plut. de gl. athen. 346F. Sulla forza d’invenzione alla base della poesia nel pensiero simonideo sembra anche significativa la testimonianza tramandata dallo Gnomologium Parisinum p. 59, n. 217 Sternbach, secondo la quale Simonide definiva Esiodo giardiniere e Omero intrecciatore di corone, l’uno in quanto creò (phyteusanta) le narrazioni mitiche sugli dèi e sugli eroi, l’altro in quanto con esse intrecciò la corona dell’Iliade e dell’Odissea.

[7] Plut. de aud. poet. 15.

[8] Pindaro, 1998, Olimpiche, trad. it. di F. Ferrari, Milano, Rizzoli.

[9] Cfr. Gentili, B., 19953, Poesia e pubblico nel mondo antico. Da Omero al V secolo, Roma-Bari, Ed. Laterza, p. 178.

[10] Cfr. Schol. ad Pind. Ol. 13, 25c (= fr. 715, 71 S-M); sulle proteste pindariche di veridicità cfr. anche Nem. 1, 18; fr. 205.

[11] Ol. 1, 30; Nem. 7, 23.

[12] Nem. 8, 32-34.

[13] Detienne, M., 1983, L’invenzione della mitologia, trad. it. di F. Cuniberto, Torino, Bollati-Boringhieri.

[14] Burkert, W., 1984, I Greci I, Milano, Jaca Book, p. 13.

[15] Hdt. 1, 60, 3.

[16] Veyne, P., 1984, I Greci hanno creduto  ai loro miti?, Bologna, Il Mulino, p. 7.

[17] Cfr. su questo le ottime considerazioni di Ford, A., 2002, The Origins of Criticism. Literary Culture and Poetic Theory in Classical Greece, Princeton-Oxford, Princeton Univ. Press, p. 199.

[18] Che da Tucidide 1, 21 a Strabone è definito mythodes.

[19] Compagnon, A., 2000, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Torino, Einaudi, p. 101.

[20] Leopardi, G., 1987-1988, Poesie e prose II, a cura di M. Damiani e M.A. Rigoni, Milano, Mondadori, pp. 365 e 389; ved. ora Mazzarella, A., 2004, La potenza del falso. Illusione, favole e sogno nella modernità letteraria, Roma, Donzelli, p. 64.

[21] Ford, cit., p. 94.

[22] Ma è da ricordare il precedente di Simonide (cfr. supra, p. 4), il quale tuttavia non sembra avere usato i termini eikon, mimeisthai o affini, i quali, come nell’inno omerico ad Apollo, coevo a Simonide, significavano ai suoi tempi “mimare un comportamento” e non “rappresentare”.

[23] Per tutte queste osservazioni si rinvia a Ford, cit., pp. 94-99 e 131-139.

[24] Ford, cit., p. 140 sgg.

[25] Con l’unica eccezione di Parmenide, un filosofo.

 

 

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