Ragione, linguaggio e natura umana. A proposito di Autonomy of Reason?. Autonomie der Vernunft?. Proceedings of the V Meeting Italian-American Philosophy, R. Dottori ed., The Dialogue (1), 2009

Erica Cosentino

Università di Roma Tor Vergata

cosentino@lettere.uniroma2.it

 

La riflessione filosofica è stata accompagnata fin dagli albori da una domanda cruciale: che cosa rende l’essere umano propriamente ciò che egli è? Nel corso della storia del pensiero a molti è sembrato che il criterio distintivo per eccellenza della natura umana non fosse altro che la ragione. Secondo Descartes la facoltà di ragionare distingue gli esseri umani dalle macchine e dagli animali e, ben prima del filosofo francese, col termine Logos i greci facevano dell’intreccio tra ragione e linguaggio il fondamento del sigillo di unicità dell’animale umano.

Recentemente, la pubblicazione degli atti del V Meeting Italian-American Philosophy (Roma, 16-19 Ottobre 2007) ha dato vita a un volume importante, curato da Riccardo Dottori, che raccoglie gli esiti contemporanei di tale riflessione classica, coinvolgendo studiosi di fama internazionale impegnati in ambiti diversi come quelli dell’estetica, dell’ermeneutica, della filosofia del linguaggio, della logica, dell’etica, della politica. Pur nella varietà dei temi trattati e delle metodologie di indagine adottate, la raccolta ha un carattere fortemente unitario, conferitole dalla convergenza sulle questioni del nostro ragionare sul mondo e su noi stessi e, in particolare, sull’attribuzione alla ragione di un peculiare statuto di autonomia.

In questa sede non analizzeremo l’apporto offerto alla discussione dai singoli contributi, né sceglieremo solo alcuni argomenti specifici tra gli innumerevoli e interessanti spunti di riflessione offerti dal volume – modalità che rischierebbe di non rendere giustizia alla complessità e ricchezza del testo in questione –, piuttosto, costruiremo un percorso di lettura sfruttando alcuni nodi tematici che percorrono trasversalmente l’intera raccolta e ne costituiscono il comune asse portante. Tali nodi concettuali sono stretti attorno alla coppia oppositiva di cause-ragioni e alle relazioni tra linguaggio, norma e società. La nozione di autonomia della ragione può essere articolata in molti modi; per esempio, seguendo la classica opposizione tra ragione ed emozione possiamo intendere l’autonomia della ragione nei termini della presunta indipendenza del ragionare dalla sfera emozionale. In questi termini, i contributi della raccolta animano una vivace discussione.

Da una parte, sembra che la contrapposizione classica debba essere superata a fronte dei numerosi esempi, offerti in diversi capitoli del libro, tesi a mostrare che tra ragioni ed emozioni esiste una significativa bidirezionalità. Tale relazione bidirezionale è evidente in almeno due casi: il primo è quello in cui il giudizio nasce dall’esperienza ed è intriso, quindi, di emozione. Ciò vale tanto per il giudizio artistico quanto per il giudizio giuridico, i quali sorgono rispettivamente dall’esperienza della bellezza e della giustizia, come sottolinea Luigi Lombardi Vallauri nel suo contributo (Confronti tra il giudizio giuridico e il giudizio estetico, pp. 40-53); il secondo caso è quello in cui la conoscenza produce l’emozione (come quando apprezziamo alcuni elementi della tecnica o del contenuto di un’opera d’arte e ciò esalta ai nostri occhi l’oggetto del nostro apprezzamento, producendo un effetto estetico). Inoltre, come mostra l’intervento di Susan L. Feagin (The Rationality of Empathizing with Fictional Characters, pp. 32-39), vi è razionalità anche nel provare emozioni; per esempio, l’empatia che ci lega ai personaggi fittizi di un’opera letteraria ci aiuta a comprenderne, simulandoli, gli stati mentali e ci consente di apprezzare meglio il valore artistico dell’opera. Dall’altra parte, però, la contrapposizione classica tra ragione ed emozione resiste ai numerosi tentativi di eliminazione; in particolare, resiste ed è alimentata dalla tendenza – ben evidente in alcuni dei saggi raccolti nel volume – a legare il destino di tale contrapposizione a quello di un’altra: l’opposizione tra esseri dotati di ragione ed esseri che ne sono privi.

Quest’ultimo è un tema particolarmente delicato in quanto riguarda da vicino la definizione che gli uomini danno di se stessi come agenti razionali, cui viene contrapposto il regno animale preso nella sua interezza e identificato con il governo delle emozioni, degli stati motivazionali, dell’irrazionalità. In questi termini, la contrapposizione tra ragione ed emozione resiste nella misura in cui molti sono interessati a mantenere in vita l’idea della specialità dell’essere umano e della natura sui generis della sua mente. Il problema è dunque quello più generale della distinzione tra ragioni e cause. L’autonomia della ragione è qui intesa come autodeterminazione, come ragione che si autodetermina, cioè che può liberarsi dalla morsa degli stati motivazionali e, per dirla con John McDowell (Autonomy and its Burdens, pp. 191-199), può “fare un passo indietro” per valutare se una certa circostanza è una ragione per agire oppure no. Tale capacità riflessiva, in opposizione all’impulso motivazionale, è ciò che distingue un essere dotato di ragione autonoma da uno che non è razionale: l’animale non razionale è tale non perché non possa agire in accordo a ragioni (il pericolo è la “ragione” della fuga dell’animale), ma perché non riconosce che il suo agire è determinato da quella “ragione” in quanto ragione, solo in questo caso, infatti, è possibile astenersi dall’agire e solo ciò è fonte di autodeterminazione. “Fare un passo indietro” significa assumere un orientamento distaccato nei confronti di situazioni che, altrimenti, avrebbero semplicemente indotto comportamenti determinati; secondo McDowell, un atteggiamento di questo tipo è accessibile solo a una categoria speciale di creature, quelle in possesso di linguaggio. Entra qui in gioco un elemento cruciale del discorso sull’autonomia della ragione: il legame tra ragione e linguaggio.

Nel caso di McDowell il nesso tra ragione e linguaggio è costruito tramite la descrizione linguistica, che fornisce i mezzi per assumere un atteggiamento parzialmente contemplativo delle situazioni, invece di avere su di esse una prospettiva meramente pratica; ciò permette di chiedersi se le circostanze costituiscano una ragione per fare ciò che si è inclini a fare ed, eventualmente, se la ragione sia sufficiente per agire. In questi termini è chiaro che la sfera del mentale è coestensiva con quella linguistica, sulla base di un’idea molto forte: la concezione che tutto il pensiero sia concettuale. Un’idea di questo tipo può essere contestata con diversi argomenti. Simone Gozzano (Believing, experiencing, and animals’ mental contents, pp. 254-265) ne fornisce un esempio, mostrando che certi contenuti mentali sono non concettuali – come quelli che possiamo attribuire a specie animali non umane – e che, dunque, non tutto il pensiero è linguistico. Resta il fatto che il nesso tra linguaggio e ragione costituisce un forte baluardo a difesa della discontinuità evolutiva rappresentata dall’essere umano; in uno dei saggi di spicco del volume, quello di Robert Brandom (Autonomy, Community and Freedom, pp. 166-178), questa idea emerge con particolare forza nel riferimento al gioco linguistico del “dare e chiedere ragioni” quale nucleo dell’attività razionale umana e ciò che ne caratterizza più peculiarmente la natura. In effetti, tale pratica sociale rende evidente la dimensione di responsabilità connaturata al linguaggio: asserendo qualcosa il parlante esegue un’azione responsabile, di cui è chiamato a rispondere e sulle cui conseguenze assume degli impegni. È proprio tale dimensione normativa a rendere speciali i nostri giudizi e le nostre azioni.

La nozione di “normatività” è un riferimento centrale per comprendere il modo in cui viene sviluppato, in questo volume, il dibattito sulla natura umana. La distinzione tra l’essere umano e gli altri animali può essere articolata, infatti, richiamandosi a Kant, come una differenza di carattere non ontologico (legata al possesso o meno di qualcosa come una mente), ma di natura deontologica. L’essere umano è caratterizzato da giudizi e azioni che sono profondamente differenti dai fenomeni che rispondono a leggi naturali, in quanto i vincoli esercitati dalle norme funzionano solo se gli uomini, in quanto soggetti, riconoscono il loro potere di vincolarli; al contrario, le creature meramente naturali sono vincolate solo da leggi la cui efficacia non è condizionata da alcun riconoscimento. Allora la differenza tra pulsione non normativa e autorità normativa consiste nel fatto che quest’ultima deve essere “riconosciuta” come autorità da parte del soggetto: solo noi abbiamo il potere di vincolare noi stessi attraverso norme e, così facendo, assumiamo degli impegni come prodotto dell’esercizio della nostra libertà. Dunque, perché vi sia genuina normatività deve esserci autonomia, cioè esercizio della propria libertà; quest’ultima, d’altra parte, deve essere intesa come un tipo di autorità, quella che noi abbiamo di renderci razionalmente responsabili: autorità e responsabilità sono caratteristiche costitutive del soggetto normativo.

Tuttavia, la dimensione normativa non può restare ancorata al soggetto individuale; un punto determinante è che l’istituzione della normatività è sociale ed è legata all’occupare un posto e rivestire un ruolo sociale. In particolare, rifacendosi a Hegel, Brandom sottolinea che alla base dell’istituzione della normatività vi è il riconoscimento reciproco: l’istituzione delle autorità non richiede solo il riconoscimento di colui che deve essere investito di autorità, ma anche il riconoscimento, da parte di quest’ultimo, che colui che lo riconosce ha l’autorità per farlo. Tale modello di riconoscimento reciproco è applicato anche al linguaggio, dove però sembrano sorgere i problemi maggiori.

Un modello di questo tipo lascia irrisolte diverse questioni. Per esempio, esso si rivela non adeguato a dar conto di alcuni casi in cui la padronanza dei significati (come quelli dei nomi di luoghi) sembra dipendere interamente dalla condivisione di certe pratiche sociali che determinano la loro condivisione (è il caso posto dalla Eva Picardi nel suo contributo The social sources of meaning. Comments on Robert Brandom, pp. 179-185). Ancora, il modello del mutuo riconoscimento non risolve il problema dell’origine dei contenuti normativi; secondo Brandom lo status normativo, cioè lo status di autorità, non viene attribuito a una persona (al parlante), ma a un concetto o a una regola: il parlante può decidere di usare una parola in certe circostanze, ma non può decidere gli impegni che derivano dalla sua scelta, i quali dipendono dal contenuto della parola. Tuttavia, come sottolinea Diego Marconi (Brandom on Normativity (Plain and Hegelian), pp. 186-190), se gli impegni assunti attraverso un certo proferimento non dipendono dai parlanti, non è chiaro quale altra possa essere la loro origine; in effetti, è da questi ultimi che proviene l’autorizzazione a usare una parola in certe circostanze e non dal concetto espresso da quella parola (in questo senso, l’autorità linguistica è intesa nei termini di competenza). La critica di Marconi mette in luce una dialettica interessante, all’interno del volume, tra modi diversi di pensare il linguaggio: dal punto di vista della lingua oppure da quello dei parlanti; il punto in discussione è stabilire se esista una dimensione di normatività della lingua come sistema che prescinde da, o trascende, i parlanti che la usano.

L’idea di linguaggio che risulta dall’operazione di collocarlo nella sfera della normatività e di considerare quest’ultima a prescindere dai parlanti risponde a un’idea dell’essere umano come fenomeno speciale che, in discontinuità col mondo naturale, è definito interamente da fattori culturali a lui esterni. Attualmente la polemica su questi temi è più che mai vivace e il volume che stiamo considerando ne offre una chiara esemplificazione; la questione è quella di stabilire se lo spostamento fuori dall’individuo di tutte le proprietà interessanti dell’essere umano sia davvero il solo modo di dar conto di ciò che caratterizza in modo distintivo la mente e il linguaggio umano. Una strategia del genere sembra andare incontro, in effetti, ad alcune difficoltà.

Intanto vi è un primo ordine di problemi, legato all’impossibilità di circoscrivere esattamente quello spazio delle “ragioni” in cui si situerebbe propriamente l’essere umano e di tenerlo separato dallo spazio delle cause. Lo sottolinea Giovanni I. Giannoli nel suo commento a McDowell (Autonomy: its burdens, bonds, and vagueness. A comment on McDowell, pp. 200-205) quando afferma che una spiegazione efficace dell’agire umano non può prescindere dall’analisi di elementi che tradizionalmente andrebbero espulsi dal mondo della ragione, come i desideri, le emozioni e le pulsioni. Un modello più adeguato sembra essere quello che fa interagire il mondo delle ragioni con quello delle proprietà naturali psicologiche e, tramite questo, con il mondo fisico; ne risultano un’idea della normatività come strettamente vincolata a certe condizioni psicologiche e una definizione dello spazio delle ragioni non come uno spazio sui generis, ma come dipendente dalla storia naturale di coloro che ragionano. Su questa linea, la discussione può essere rilanciata muovendo dalla constatazione che le ragioni non sono altro che un particolare tipo di cause: ciò non esclude l’autonomia della ragione, ma la vincola a un’ontologia fisicalista. Inoltre, se concordiamo che il fondamento della normatività è il riconoscimento dell’altro – e non della norma, intesa come una realtà sopra ed extraindividuale –, allora la capacità di mettere in atto il riconoscimento può essere intesa come parte della biologia e della psicologia dell’individuo. Tale riconoscimento può essere considerato, dunque, condizione imprescindibile del costituirsi di una lingua come deposito di valori comuni .

In definitiva, come emerge dall’importante confronto tra le diverse voci che compongono il volume, la definizione della natura del linguaggio e della mente è strettamente intrecciata alla definizione della natura umana ed è proprio da questo punto di vista che esso risulta particolarmente significativo. La varietà di temi e di approcci che lo compongono frammenta la nozione di ragione in schegge di cui vengono offerti preziosi approfondimenti; tale poliedricità del volume ne costituisce anche la ricchezza, infatti la ragione “frammentata” dalle diverse prospettive viene infine ricomposta, grazie alla dialettica tra i diversi saggi, in un’immagine unitaria fatta di nozioni stratificate e in tensione che si intrecciano, talvolta scontrandosi, altre volte rafforzandosi reciprocamente, all’interno di un’appassionante indagine comune sulla nostra natura di esseri umani.