RECENSIONE A: Franca D’Agostini, Paradossi, Carocci, 2009, pp. 208. 

di Adalberto Coltelluccio 
 
 

È possibile sostenere che la contraddizione esista? È questo l’interrogativo di fondo dell’interessante libro di F. D’Agostini, Paradossi, edito da Carocci (2009). L’autrice non è nuova a queste problematiche logico-filosofiche, avendo già trattato di paradossi, antinomie, dilemmi e contraddizione in diversi suoi testi, fra i quali ricordiamo soprattutto il notevole Disavventure della verità (Torino 2002, in cui esamina a fondo la tesi scettica che «la verità non esiste», tesi che conduce all’auto-confutazione), e Autoriferimento e paradossi: una introduzione (saggio incluso nel collettaneo, curato da G. Basti e C.A. Testi, Analogia e autoreferenza, Genova-Milano 2004, nel quale analizza il paradosso senza autoriferimento di Yablo).

    Tuttavia, la novità della sua ultima fatica va colta, a mio avviso, nell’esplicita presa di posizione a favore dell’ammissione di contraddizioni ineliminabili. Nei precedenti lavori D’Agostini non era giunta a sostenere in modo così netto l’intoglibilità delle contraddizioni, mentre ora sembra che, a partire dalla presa d’atto dell’insolubilità di principio di alcuni tipi di paradossi (in particolare, quelli semantici e i cosiddetti soriti), non si possa fare a meno di asserire che almeno qualche contraddizione esiste. In ogni caso, il numero delle contraddizioni ammesse è ben limitato. Pertanto, i cosiddetti «rivali del Principio di Non Contraddizione», o PNC (per riprendere l’espressione di un altro interessante libro sull’argomento, Teorie dell’assurdo, scritto da uno dei più importanti studiosi italiani di contraddizioni, Francesco Berto, e pubblicato anche questo da Carocci nel 2006), devono contenere la loro esultanza, in quanto, se da un lato ci troviamo di fronte a una posizione teorica apertamente favorevole all’ammissione di contraddizioni, dall’altro il tipo di contraddizione ammesso si riduce in realtà a uno solo: i paradossi, appunto.

    Mi limito a segnalare, tra i molti aspetti interessanti e istruttivi del libro di D’Agostini, solo tre punti per una riflessione:

  1. la nuova definizione di paradosso come contraddizione «resistente» o «irriducibile»;
  2. l’individuazione del fattore indispensabile che genera il paradosso (diciamo: la condizione necessaria e sufficiente), nella «diagonalizzazione», e non nell’autoreferenza;
  3. l’apertura a una prospettiva interpretativa della contraddizione originale, non riducibile ai soli lati tecnici (logici) della questione, bensì di respiro più propriamente filosofico, e il cui esito coinvolge non solo la filosofia del linguaggio e la semantica, ma persino l’ontologia. Vedremo che questo è, forse, il pregio maggiore dello studio di D’Agostini, dato che permette di scorgere nelle contraddizioni (tradizionalmente relegate, quando sono ammesse, solo all’interno del linguaggio o del pensiero) un certo tipo di “espressione” della realtà che non può, a sua volta, essere considerato “privo” di realtà.

    Il primo punto è estremamente interessante, perché esplora in modo nuovo la natura dei paradossi legandola indissolubilmente alla contraddizione (e, dunque, a una effettiva trasgressione del PNC); e perché mette in luce il tratto di ineliminabilità e di insolubilità della contraddizione in esso contenuta, prendendo atto che vi sono contraddizioni che, in linea di principio, non è possibile toglierle.

    D’Agostini conia l’espressione di «contraddizione resistente» per intendere, appunto, una contraddizione difficile oppure impossibile da risolvere. Solitamente, in letteratura, il paradosso è stato definito come «un argomento apparentemente corretto con una conclusione inaccettabile» (p. 19). D’Agostini propone una spiegazione del paradosso che ha un’affinità con quella proposta anche da Berto, che, dal canto suo, si ricollega alle ricerche straniere soprattutto di area paraconsistente, e sostiene che il paradosso, attraverso una certa sequenza di formule, fa derivare sempre una contraddizione.

    La caratteristica essenziale consiste nella struttura contraddittoria del paradosso e nella sua irriducibilità. Un paradosso, dice infatti D’Agostini, è un enunciato problematico in cui «c’è di mezzo una contraddizione» (p. 21). Più precisamente, «è un argomento, una domanda, una opinione, o anche una situazione (è indifferente quale sia il punto di partenza), che genera una contraddizione resistente, di cui non riusciamo a disfarci» (ibid.).

    Il paradosso produce una particolare circolarità in cui è presente una doppia implicazione, attraverso cui ciò che viene posto è posto se e solo se non è posto: μ ↔ ¬μ. Sono questi i «paradossi in uno stadio definitivo, che esibiscono un chiaro fallimento delle riduzioni» (p. 38). Essi sono di due tipi: (1) le antinomie (ossia i paradossi semantici e i paradossi insiemistici, come quello di Russell), (2) i soriti, ossia le «situazioni di confine» (v. il paradosso del “mucchio” o quello del “calvo”).

    Più  in particolare, nel primo tipo di paradossi, ad esempio nel mentitore, la contraddizione resiste in quanto l’enunciato «esprime una tesi auto-contraddittoria»: precisamente dice di se stesso di esser falso, ma poiché proprio questo dice di sé, allora è vero. Ma, se è vero, allora, di nuovo, è falso. Così, «se cerchiamo di liberarci di μ [ossia, se ¬μ], salta di nuovo fuori μ; se d’altra parte proviamo ad accettare μ, dobbiamo riconoscere che ¬μ» (p. 39). Stesso discorso nel paradosso di Grelling-Nelson e in quello delle classi di Russell. Anche in questi, infatti, la struttura è contraddittoria, ed è costituita da un circolo in cui μ → ¬μ, ma insieme e al tempo stesso ¬μ → μ, ossia, appunto, μ ↔ ¬μ. Troviamo, cioè, una circolarità in cui l’enunciato si “auto-intrappola”, per dir così, e da cui non riesce più a uscire (strada inaccessibile, o senza uscita: aporia).

    Nel secondo tipo di paradossi, come i soriti, la contraddizione resiste e «le procedure di riduzione falliscono», in quanto da una certa tesi α deriviamo β, che è falso (dato che già sappiamo che è vero ¬β); perciò, cerchiamo di sbarazzarci di α, asserendo ¬α. A questo punto, però, «salta fuori di nuovo che se ¬α, allora di nuovo β». E così, «in entrambi i casi abbiamo un doppio tentativo di riduzione all’assurdo, che fallisce» (ibid.). In questo tipo di paradossi, dunque, abbiamo una premessa α che genera come conseguenza una contraddizione, β Ù ¬β; pertanto, occorre negare α, ma pure negandola otteniamo di nuovo una contraddizione, in modo tale che sia con α sia con ¬α concludiamo in una contraddizione: α → (β Ù ¬β), ma anche ¬α → (β Ù ¬β).

    Nei confronti dei paradossi, la bimillenaria storia della filosofia documenta una tenace quanto improduttiva serie di tentativi di soluzione, che possono rientrare in due grandi classi di procedure: la dissoluzione e la riduzione. La prima (denominata anche parametrizzazione) cerca di dissolvere il paradosso, mostrando che in esso non vi è una vera contraddizione. Essa, infatti, tenta di “attaccare” direttamente la contraddizione, in modo da “rifrangerla” (se mi si passa la metafora) in aspetti diversi. Indirizzando i due enunciati (o corni) congiunti della contraddizione in due ordini diversi di enunciazione (o predicazione), è chiaro che viene a scomporsi, a rompersi quella circolarità vista prima, e la contraddizione viene disinnescata.

    La seconda procedura (riduzione) non opera direttamente sulla contraddizione, ma sulla condizione che la genera, cioè su qualcuna delle premesse. Questa procedura, nota come reductio ad absurdum, è il modo più consolidato e diffuso di sbarazzarsi delle contraddizioni: c’è una premessa α da cui si ottiene β Ù ¬β, pertanto α non è valida e viene confutata, assumendo ¬α.

    Sia l’uno che l’altro tipo di soluzioni non funzionano per i paradossi, e dunque occorre riconoscere che almeno alcune contraddizioni non si possono eliminare. Esisterebbero, a dire il vero, altre proposte di soluzione che violano qualche legge logica. Una, in particolare, è definita “truth value glut” e viola quello che tradizionalmente è considerato il principium firmissimum, il principio più saldo di tutti: il PNC. Infatti, ammette che i paradossi sono sia V che F insieme: «c’è un eccesso (glut) di valori di verità» (p. 143), trasgredendo ciò che non dovrebbe mai essere trasgredito, il PNC che, nella sua formulazione semantica (seguo la classificazione di Berto, 2006), vieta che un enunciato possa essere contemporaneamente V e F.

    Le soluzioni “gluttiste” sono adottate dalle logiche paraconsistenti, le quali ammettono contraddizioni vere, pur senza derivare qualsiasi cosa (trivialismo, o deflagrazione del sistema). La paraconsistenza presenta una versione debole, che ammette contraddizioni vere ma non reali, ossia non oggettive; e una versione forte, o dialeteismo (da di-aletheia, doppio valore di verità, perché si ammette sia che è vero α sia che è vero ¬α), che sostiene che le contraddizioni, invece, «ci sono realmente, nel mondo reale» (p. 152). Questi approcci, soprattutto il secondo, sono stati spesso criticati proprio per la loro pretesa di poter violare il PNC.

    La posizione di D’Agostini consiste nel ritenere che la contraddizione «c’è», ossia è vera, solo quando è irriducibile. Ora, quando possiamo affermare che c’è davvero una contraddizione ineliminabile? La risposta di D’Agostini è netta: «c’è un solo caso di questo tipo, anche se ha forme diverse: i paradossi nel senso stretto del termine» (p. 188). Non esisterebbero, però, contraddizioni reali.

    Altro aspetto interessante del libro riguarda l’analisi del meccanismo generatore del paradosso, e cioè la diagonalizzazione. Sebbene qualche altro autore straniero (per es. Keith Simmons, nel suo Universality and the Liar. An Essay on Truth and the Diagonal Argument, 1993) abbia individuato tale meccanismo ritenendolo responsabile del paradosso, D’Agostini rileva con insistenza la sua peculiare prerogativa “paradoxo-gena” (se mi si passa il termine), di generare cioè i paradossi. Per D’Agostini, infatti, tre sono le condizioni che possono generare i paradossi: (1) l’autoriferimento, ossia l’enunciato deve potersi riferire a se stesso in ciò che dice (è la caratteristica più diffusamente ritenuta, in letteratura, responsabile della paradossalità); (2) la negazione, ossia «l’enunciato dice di non avere una certa proprietà (non appartenere, non riferirsi, non essere vero)» (p. 131); (3) la diagonalizzazione o iterazione, ossia il predicato che viene attribuito al soggetto dell’enunciato deve poter essere iterato o ripetuto in modo da autoapplicarsi all’attributo stesso (es.: «‘eterologico’ è, a sua volta, eterologico?»).

    Tutte e tre le condizioni hanno un loro ruolo nei paradossi, ma, a giudizio di D’Agostini, solo la diagonalizzazione è, oltre che necessaria, sufficiente a generare il paradosso. Essa è, infatti, quel fattore che “dà inizio” alla procedura riflessiva che innesca la contraddizione. La prova che gli altri due fattori possono non essere indispensabili, è data dal fatto che vi sono enunciati autoreferenziali che non generano paradossi e, viceversa, vi sono paradossi che non sono autoreferenziali (per es. quello di Stephen Yablo, v. Paradox without Self-Reference, 1993). D’altra parte, vi sono paradossi che non fanno uso della negazione, come il paradosso di Curry.

    La prima condizione, cioè l’autoriferimento (che può essere diretto o indiretto), produce «un ricorso infinito». Ciò vuol dire che, nel riferirsi a se stesso, l’enunciato provoca una inarrestabile duplicazione di ciò che dice (come in un gioco di specchi). Riprendendo un esempio squisitamente filosofico dal saggio della D’Agostini del 2004, se diciamo che l’Io = Io che pensa se stesso, è chiaro che al primo Io dell’uguaglianza occorre sostituire tutto l’Io che è al secondo membro, e poi, di nuovo, ad ogni occorrenza sostituire ancora, e così via in un ricorso infinito. Tuttavia, l’autoriferimento in sé non sempre è paradossale, ossia non produce necessariamente una contraddizione.

    Ciò  che non può mancare è la terza condizione: la diagonalizzazione o iterazione del predicato. Quale è il suo ruolo? È quello di “far essere” il paradosso, dando inizio al processo di circolarità che conduce alla contraddizione, e che auto-intrappola l’enunciato. Ciò su cui D’Agostini insiste è proprio il fatto che affinché «un paradosso si presenti come tale qualche funzione di riflessione è necessaria» (p. 136). Da parte mia, mi limito solo a evidenziare il nesso persino terminologico tra questa operazione strettamente logica e la dimensione filosofica, in cui le procedure riflessive sono a dir poco costitutive, essenziali.

    Questo aspetto ci conduce alla considerazione dell’ultimo punto. Malgrado D’Agostini non abbia una posizione teoretica favorevole alla realtà delle contraddizione, è però possibile, a mio avviso, ricavare ugualmente argomenti che almeno non rifiutino in modo pregiudizievole un orientamento dialeteistico. Anzi, almeno un argomento del libro va in direzione dell’accoglienza di contraddizioni dotate di una qualche forma di realtà. L’argomento è adoperato da D’Agostini in merito alla questione se la vaghezza sia uno stato di cose oppure un modo di conoscere. D’Agostini, in modo originale, sostiene che essa riguardi «entrambe le cose», e precisamente tanto la definibilità concettuale degli enti, quanto la loro struttura reale. Questo comporta che «senza linguaggio non c’è (problema della) vaghezza», certo, ma, anche e al tempo stesso, che «senza le strutture del mondo e la loro peculiare natura, la vaghezza non avrebbe motivo di esprimersi» (p. 177). Di conseguenza, «poiché il rapporto tra linguaggio e mondo è esso stesso un fatto del mondo, la vaghezza è anzitutto un problema metafisico» (ibid.).

    Possiamo tentare di interpretare allo stesso modo il rapporto tra contraddizione e mondo. Anche ammesso che le contraddizioni siano soltanto enunciati, credenze, raffigurazioni del mondo e non entità del mondo, è pur vero che senza strutture reali fatte in modo contraddittorio, la contraddittorietà «non avrebbe motivo di esprimersi». Seguendo la stessa argomentazione di D’Agostini, se il mondo non fosse esso stesso costituito di contraddittorietà, il suo rapporto col linguaggio e col pensiero potrebbe essere tale da escludere qualsiasi forma di contraddittorietà. Di conseguenza, essendo il rapporto tra la realtà e il linguaggio che la esprime (talvolta) attraverso contraddizioni esso stesso un fatto del mondo, la contraddittorietà non può non essere una modalità in qualche modo reale, un evento interno al mondo, e dunque una faccenda anche ontologica.

    Prima di concludere, vorrei fare un solo rilievo critico al libro di D’Agostini, tra l’altro anche questo derivabile da argomentazioni presenti in D’Agostini 2002. In quell’occasione, D’Agostini, parlando del nichilista “compiuto” che sostiene in modo radicale che la «verità non esiste» (VNE), afferma che questo tipo di nichilista (in cui confluiscono idee di Nietzsche e di Sesto Empirico), per aggirare l’innegabilità della verità, giunge a dire che «neanche questa [ossia, l’inesistenza della verità] è una verità». In tal modo, come dice la stessa D’Agostini, il nichilista compiuto esce completamente dal “sistema-verità”, e, pur autoconfutandosi, cancella con tutte le possibili asserzioni anche la propria, ultima asserzione (come i purganti che gettano via anche se stessi insieme a tutto il resto).

    Mi sembra che nulla vieti che si possa proporre un argomento simile anche per il sostenitore della tesi radicale che «tutto è contraddittorio». Anch’egli, come il nichilista compiuto, per aggirare l’incontrovertibilità del PNC, giunge a dire che «neanche questa tesi [che tutto è contraddittorio] è incontraddittoria», ossia neanche questa tesi viene affermata ad esclusione della tesi opposta (la tesi, cioè, che tutto sia, invece, non-contraddittorio). In tal modo, esce completamente dal «sistema-non contraddittorio», e, pur auto-contraddicendosi, contraddice non solo tutte le possibili asserzioni, ma anche la propria (apparentemente non-contraddittoria) asserzione. 
 

COLOGNO MONZESE, febbraio 2010

Adalberto Coltelluccio