Alberto Voltolini e Clotilde Calabi, I problemi dell’intenzionalità, Einaudi, Torino 2009, pp. 337 di Luisa De Paula.

 

Il volume offre una panoramica aggiornata su uno dei temi che più hanno affascinato e diviso la filosofia del ’900: l’intenzionalità. Il titolo non mente, i problemi restano a tutt’oggi aperti. Mentre Frege, Wittgenstein, Brentano e Husserl prestano il fianco ad ipotesi originali degli autori, il lettore può concedersi il gusto d’immaginare proposte alternative. Uno stile agile, a tratti perfino accattivante, ha il merito di rendere questioni notoriamente ostiche accessibili anche al profano. Stante il rigore sistematico, il volume assomiglia più a un intricato giallo concettuale che a un tradizionale saggio filosofico: gli enigmi si moltiplicano delineando un tracciato a biforcazioni continue, mentre l’impossibile soluzione è demandata ad altra sede. Ripercorreremo in breve le tappe di un percorso tanto appassionante e rigorosamente immaginifico, sperando d’incentivare, oltre alla lettura integrale del testo, anche ulteriori ricerche ed approfondimenti su un tema oltremodo fecondo.

Storicamente l’evoluzione del dibattito sull’intenzionalità coincide con lo sviluppo dei due indirizzi fondamentali della filosofia del ’900: quello analitico, che vede nella filosofia un’indagine di tipo scientifico, e quello fenomenologico, che fa invece della riflessione filosofica un ambito per principio separato. Nel libro di Calabi e Voltolini l’indirizzo analitico trova maggior rappresentanza. Ne consegue un orientamento privilegiato a questioni inerenti mente e linguaggio, mentre tendono a restare in ombra i risvolti esistenziali e metafisici dell’intenzionalità. Di qui lo stimolo a riprenderne lo studio da altri versanti di ricerca. Nel capitolo 1 – Per scaldare i motori – gli Uccelli di Hitchcock e i personaggi di Disney introducono una distinzione che accompagnerà il lettore fino alle ultime pagine: quella tra intenzionalità del riferimento, ossia la direzionalità, il rivolgersi a qualcosa, e l’intenzionalità del contenuto, ovvero lo stato mentale oggettivo, traducibile in proposizioni vere o false. La delimitazione di un campo semantico appropriato al concetto porta con sé una serie di problemi, presi in considerazione nel capitolo 2 – I criteri dell’intenzionalità –, dove, guidato da esempi semplici e concreti, il lettore è portato a riflettere sulla costitutiva elusività dell’oggetto intenzionale e su alcuni limiti dell’interpretazione linguistica.

Della Struttura dell’intenzionalità si occupa il terzo capitolo, il più lungo e complesso dell’intero volume. Come catturare la proprietà intenzionale a monte del concetto? Se da un punto di vista concettuale l’intenzionalità presuppone che il suo oggetto possa non esistere, la non esistenza dell’oggetto è invece un problema a livello di proprietà strutturale. È difficile che una paura possa prescindere da quanto è temuto; la problematicità dell’oggetto come riferimento diventa problematicità della relazione tra stato ed oggetto: relazione negata dalle tesi monodiche tramite strategie avverbialiste (vedere veramente, sentire acutamente, percepire verde-acutamente), ma teorizzata in molteplici varianti da una più nutrita e variegata corrente relazionale. Si apre così un sentiero di biforcazioni teoriche che dal primo Brentano conduce alle più recenti ipotesi. Una tavola ben congeniata (p. 97) aiuta a sostenere lo sforzo necessario per inquadrare e categorizzare l’albero delle proposte. Nell’ambito delle teorie relazionali, ai due estremi dello spettro troviamo l’«ultrarealismo» di Twardowski e Meinong, e il «realismo genuino» di Husserl e Searle. Il passaggio al trascendentalismo husserliano, per cui l’oggetto generato nello stato mentale persiste anche al di là dello stato, impone la necessità di ridefinire il contenuto intenzionale nei termini di primo riferimento della relazione intenzionale, distinguendolo cosi dall’intenzionalità del contenuto. Per i realisti, che non ammettono l’inesistenza dell’oggetto intenzionale, il contenuto è quel quid verso cui è diretto anche lo stato apparentemente privo di correlato oggettuale. L’El Dorado anelata dai conquistadores spagnoli e l’orco nero temuto dal bambino sono, per esempio, tipici contenuti intenzionali con cui i realisti spiegano l’apparente riferimento dello stato ad oggetti non esistenti.

Costante è il rimando all’interrogativo se annettere o meno all’orizzonte ontologico il campo dei possibili, dei falsi e dei non esistenti. Lo statuto incerto delle proposizioni false ha portato Russell e Searle a rielaborare le proprie posizioni iniziali in cui il contenuto intenzionale era strettamente definito in termini proposizionali (cioè identificato con proposizioni di un certo tipo). Nella versione corretta il contenuto proposizionale è composto da termini concettuali e dipende dallo stato di cui definisce le condizioni di verità. Ha un contenuto proposizionale di questo tipo, per esempio, la credenza che troverò sul parabrezza della mia auto una multa da 500 euro, e che presuppone le entità generali parabrezza, auto, multa, etc. Per illustrare la posizione del realismo genuino ispirata a Frege, gli autori ricorrono a un esperimento mentale divertente ed efficace. Ipotizzano che Clotilde (l’autrice) sia stata invitata a una festa e che abbia conosciuto Bin Laden nei panni di un signore galante, e che nulla, nel corso della serata, sia trapelato quanto alla vera identità dell’affascinante mediorientale; il giorno successivo all’incontro, Clotilde s’immerge nell’ironica fantasia che l’uomo conosciuto alla festa possa inviarle un kamikaze nel giardino; allo stesso tempo Clotilde teme che Bin Laden possa effettivamente mandare un kamikaze nel suo giardino. In questo caso si hanno due diversi contenuti intenzionali che determinano due diverse proposizioni con due soggetti diversi (l’uomo incontrato alla festa e Bin Laden), ma entrambi i contenuti proposizionali definiscono le condizioni di verità per lo stato mentale di Clotilde, ossia che Bin Laden alias galantuomo mediorientale compia effettivamente il gesto efferato.

Genera paradossi anche l’esperimento mentale della Terra Gemella proposto da Putnam. Immaginiamo il clone di un uomo del nostro pianeta che vive su un pianeta gemello in tutto e per tutto simile alla terra. I due sono composti dalle stesse molecole e condividono gli stessi pensieri. I componenti del pianeta gemello sono identici ai componenti del pianeta terra, salvo avere, in alcuni casi, diversi costituenti chimici. Così l’acqua, H2O sulla terra, è HYZ nell’altro mondo. I gemelli ignorano la chimica. Per loro l’acqua è un liquido inodore e insapore, non un aggregato di atomi in una certa configurazione molecolare. Entrambi, nello stesso istante, si ritrovano a formulare un pensiero sull’elemento acqua, attribuendole la caratteristica di essere bagnata. Stando a Frege, i due gemelli si riferiscono allo stesso contenuto intenzionale, che trova espressione nello stesso contenuto proposizionale, composto da identici termini concettuali (liquido, inodore, etc). Tuttavia i contenuti proposizionali in questo caso non riescono a definire criteri di verità attendibili per gli stati dei gemelli.

Il contenuto intenzionale è di natura concettuale? È una delle questioni che fanno da cerniera tra il terzo e il quarto capitolo consacrato a Percezione e intenzionalità. Chi ammette l’inesistenza dell’oggetto intenzionale sarà portato a identificare il contenuto non concettuale con oggetti impossibili quali un cavallo sognato tutto bianco e tutto nero, mentre i realisti potranno ammetterlo sotto forma di schema aspecifico dell’oggetto da intenzionare. Spostando il focus sulla percezione, il quadro si complica, perché non può prescindere dai casi di allucinazione ed illusione: il ramo immerso nell’acqua che dà l’impressione di essere spezzato, i binari paralleli che appaiono convergenti, i segmenti di Müller-Lyer che sembrano avere lunghezze differenti. La discussione mobilita posizioni classiche, da Cartesio a Berkeley, attorno all’ipotesi soggiacente, variamente articolata, di un doppio oggetto intenzionale, deus ex machina a salvaguardia di un criterio di veridicità.

E qui emergono i limiti del principio fenomenico e dei suoi risvolti rappresentazionali (l’apparenza fenomenica che compare nello stato non è l’oggetto fisico, ma una sua rappresentazione). L’oggetto intenzionale non è né oggetto fisico, né rappresentazione: sfugge da ogni lato. Gilbert Harman fa l’esempio di Ponce de León che cerca la Fontana della Giovinezza, e non l’idea – che possedeva già – della fontana: l’oggetto della sua ricerca non è né fisico né mentale, ma è il tipico oggetto intenzionale. A differenza delle chiavi che ho smarrito e che forse ritroverò, quest’oggetto intenzionale non ha corrispondenze nell’oggetto reale, e precede la possibilità che ho di discriminare l’esperienza veridica dall’illusione. Occorre dunque definire meglio quel contenuto su cui si costituisce l’oggetto intenzionale, e distinguere il vedere semplice (o fenomenico) dal vedere epistemico che, svincolato dall’esperienza diretta, si appoggia alla credenza. Uscendo dall’ottica dei dati sensoriali, causalità e cognitivismo offrono ulteriori agganci per ripensare il rapporto tra percezione ed intenzionalità.

Fino al Capitolo 4, dunque, l’argomentazione procede a latere dell’esperienza percettiva, coerentemente con la scelta di metaforizzare l’elemento direzionale connaturato nell’etimo dell’in-tenzionalità. L’“in-tendere”, il “rivolgersi a”, il “vertere su” sono però il nucleo primario dell’intenzionalità così come si è venuta configurando tra logica e medicina in epoca medioevale, da Avicenna agli scolastici. In questa tradizione, perno della ripresa brentaniana, l’intenzionalità è un movimento effettivo e una dinamica concreta, non una metafora di ciò che si muove nel mondo reale. Virando su questo approccio, nel Capitolo 5 – Natura ed esistenza dell’intenzionalità – gli autori presentano le prospettive di naturalizzazione nell’ottica del rapporto tra intenzionalità e coscienza. Al pari della coscienza, anche l’intenzionalità può essere concepita come una proprietà emergente, o in qualità di parte della coscienza, o come emergenza separata. In quest’ultimo caso l’intenzionalità – proprietà naturale – può avere un’estensione di gran lunga maggiore rispetto agli stati intenzionali coscienti ed assurgere a caratteristica comune di piante, termostati e metal detector. Sul fronte opposto dell’antinaturalismo, le critiche alle tesi emergentiste dell’intenzionalità traggono spunto dagli esperimenti mentali di Chalmers, Davidson e Danto. Chalmers ipotizza l’esistenza di zombi qualitativi: repliche funzionalmente identiche a noi ma privi di stati mentali, ossia vissuti irriducibili a determinati stati cerebrali; nulla vieta, in linea di principio, che cloni anomali di questo tipo possano effettivamente darsi. È dunque possibile concepire l’esistenza di esseri che dal punto di vista funzionale si siano evoluti a livello umano, mentre è più difficile immaginare che in questi stessi organismi l’attitudine al vissuto possa sopravvenire come qualità emergente senza l’intervento di nessun fattore esterno, ossia senza muovere un passo fuori dall’orizzonte naturalistico. Un argomento parallelo è quello dei qualia invertiti. Possiamo immaginare due gemelli identici dal punto di vista funzionale, ma che esperiscono qualità opposte in reazione agli stessi stimoli sensoriali, per cui, ad esempio, il suono che uno dei gemelli avverte come grave l’altro lo udrà acuto, un tessuto percepito ruvido dal secondo apparirà all’altro liscio come seta e cosi via. Gedankenexperimenten di questo tipo servirebbero a scartare le ipotesi naturalistiche a vantaggio delle concezioni modali o normative.

La prospettiva modale è illustrata mediante analogia con l’autorialità dell’opera d’arte. La modalità dell’intenzionalità si esplicita in una relazione di dipendenza tra stato e contenuto paragonabile alla relazione tra artista ed opera d’arte: l’esistenza dell’artista, è requisito necessario per l’esistenza dell’opera ma non per quella delle sue copie o repliche seriali; analogamente, lo stato intenzionale, a differenza degli zombi intenzionali, intrattiene con il suo contenuto una relazione di dipendenza necessaria, per cui non esisterebbe stato senza il contenuto su cui lo stato verte. All’ambito della naturalizzazione o non naturalizzazione vengono riportate anche le problematiche inerenti l’approccio coscienzialista. Qui la discussione delle posizioni teoriche che prendono le mosse dal presunto legame tra intenzionalità e coscienza non risulta del tutto convincente. L’idea di un’intenzionalità fenomenica dipendente dalle modalità sensoriali, per esempio, viene criticata perché, presupponendo la caratterizzazione del contenuto intenzionale sulla base delle modalità di presentazione, esporrebbe la proprietà stessa dell’intenzionalità alle derive parallele della proliferazione ad infinitum e dell’eliminativismo. Tuttavia, come ricordato dagli stessi autori, già la classificazione brentaniana degli stati intenzionali presupponeva l’influenza delle modalità sulla proprietà e una tipizzazione di stati al riparo dalle derive del relativismo estremo. La teoria della coscienza fenomenica ristretta resta comunque debole di fronte all’obiezione che si fonda su percezioni esterne, ossia su una classe di stati che non indiscutibilmente appartiene all’intenzionalità, e che sicuramente non ne esaurisce il dominio. Rimangono invece in piedi le teorie fenomeniche allargate, ossia le teorie che tendono a far coincidere l’intenzionalità con il più ampio e variegato ambito del vissuto, comprendente, a fianco di sensazioni ricavate esternamente, anche credenze, supposizioni, giudizi e rappresentazioni di diverso genere.

Tallone d’Achille dell’approccio fenomenico allargato è, secondo gli autori, il nesso tra prospetticità e coscienza vissuta, perché «non c’è nessuna aspettualità dello stato, ma solo dell’oggetto intenzionale in esso intrattenuto» (p. 284). Tuttavia, l’attribuzione unilaterale della prospetticità all’oggetto con esclusione dello stato sembrerebbe una petitio principii, specie nella misura in cui intende colpire una struttura, quella della coscienza fenomenologica, per sua natura chiasmatica, una struttura, cioè, in cui la manifestatività aspettuale precede ogni possibilità d’intendere lo stato indipendentemente dal suo oggetto o contenuto. In altre parole, i teorici della coscienza fenomenica allargata potrebbero ribattere che la prospetticità inerisce primariamente all’esperienza vissuta e, solo in un secondo momento, è estensibile, parallelamente e simmetricamente, allo stato e all’oggetto che in quell’esperienza vengono a configurarsi relazionandosi. Discutibile è anche la tesi per cui possano esistere stati intenzionali in assenza di un’esperienza di significato. Il contenuto proposizionale di uno stato intenzionale isolato dalla dimensione del significato in cui è esperito si ridurrebbe a mera proposizione, a un insieme di parole o lettere senza alcun possibile scopo, senso o anche semplicemente direzione: non sarebbe più in grado di costituirsi come contenuto e di entrare in relazione con alcunché. L’impressione è che la definizione d’intenzionalità in termini di coscienza allargata ed esperienza vissuta apra un campo tanto scivoloso quanto fecondo. Gli autori preferiscono mantenersene alla larga, prediligendo un approccio fondato su un criterio ristretto di veridicità. In ultimo, sembrerebbe quasi che le possibilità dischiuse da un’indagine sull’intenzionalità in relazione al vissuto vengano sacrificate a presunte esigenze di realismo. L’esperienza, si dice, è tipicamente non veridica e tendente all’inganno, così possiamo attribuire a un bastone immerso nell’acqua una forma spezzata o a un sogno dei significati che esso senz’altro non ha. Insomma, gli autori cedono alla tentazione di derealizzare, escludendo dall’ambito della veridicità proprio quelle esperienze in cui maggiormente sembrerebbero radicarsi i significati e i valori intenzionali: percezione, sogno, reazioni emotive a certe situazioni.

Nell’ultimo capitolo – L’intenzionalità è il marchio del mentale? –, accennando un radicale rovesciamento di prospettiva, gli autori impegnano il lettore a tornare sulle pagine precedenti tenendo conto anche di quest’altro punto di vista:

Ci siamo interrogati sulla questione se si possa fondare l’intenzionalità sulla fenomenologia, nel senso di vedere se l’intenzionalità sia una relazione che ha in ultimo a che fare con la coscienza fenomenica [] vogliamo scandagliare la tesi in qualche modo opposta, ossia se la fenomenologia si possa fondare sull’intenzionalità. (p. 297)

L’obiettivo, condivisibile quanto ambizioso, non potrebbe essere più esplicito: coniugare una versione aggiornata dell’intenzionalità in senso fenomenologico con l’appello di Wittgenstein alla trasparenza esperienziale. Si tratta, in altre parole, di scartare l’idea tipicamente brentaniana che l’intenzionalità sia un carattere necessario ed esclusivo del mentale, per rimetterla invece a fondamento dell’indagine sull’esperienza di realtà e sul mondo nella sua trasparenza. Siete pronti a raccogliere la sfida?

 

Luisa De Paula